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Benevento – “Il caporalato in Italia esiste da decenni e la legge del 2016 è solo un piccolo ma importante passo per restituire la dignità ai lavoratori del settore agricolo.  Siamo coscienti che non è con una sola legge che si possano cambiare le cose. La situazione è cosi strutturata e radicata nel settore lavorativo e sociale che c’è bisogno, oltre che del necessario intervento repressivo, anche di maggiore prevenzione, lavorando su filiere alternative. Il tutto partendo dal basso, dagli enti locali, dalle associazioni, dagli agricoltori e dai braccianti; metterci insieme per cambiare il territorio”.

Le parole di Yvan Sagnet, fondatore della rete internazionale anticaporalato No Cap, durante il seminario “Filiere etiche e immigrazione: modelli di welfare e di inclusione sociale”, di questa mattina al Dipartimento DEMM dell’Università del Sannio, raccontano di come il fenomeno del caporalato (una mediazione illegale di manodopera a basso costo) sia pratica ancora diffusa nel settore dell’agroalimentare.

Il seminario rientra nell’ambito di AfeLAB, Agrifood economics laboratory, attivato dalla cattedra di Economia agroalimentare del professore Giuseppe Marotta, che ospita colloqui con imprenditori, policy maker e studiosi, su temi di frontiera dell’agroalimentare.

Yvan Sagnet arriva in Italia, dal Camerun, nel 2011 per studiare ingegneria a Torino grazie ad una borsa di studio. Concluso il sostegno economico, Yvan inizia a lavorare come bracciante agricolo nella campagne salentine, precisamente a Nardò, per guadagnare qualcosa per continuare gli studi. Da quella esperienza si accorgerà ben presto la grave e vergognosa situazione in cui si trovano a lavorare almeno 800 mila braccianti agricoli, italiani e stranieri: “Abbiamo scioperato per la prima volta come stranieri e dopo 50 anni come braccianti, svelando un realtà degradante che la società civile faceva finta di non conoscere. Grazie a quella rivolta si è creato un movimento volto al cambiamento reale della situazione. Ci siamo riusciti attraverso la legge che punisce il caporalato e lo sfruttamento dei lavoratori agricoli ma c’è ancora tanto da fare”.

Sagnet parla attraverso i dati raccolti dalle ricerche sul campo: “Lo stato dello sfruttamento dei braccianti agricoli in Italia è emblematico. Su 1 milione e 200 mila braccianti agricoli, 400 mila vivono il cosiddetto grave sfruttamento con un sottosalario di 2 euro e 50 cent l’ora, in condizioni di quasi schiavitù che ledono la dignità umana, spesso in complicità con le istituzioni.  Altri 400 mila subiscono ciò che viene definito il lavoro grigio e cioè un’evasione contributiva praticata dagli imprenditori che non versano i contributi ai lavoratori che scoprano ciò solo quando vanno a richiedere sussidi che gli spetterebbero di diritto. Al Sud ci sono i caporali ma la Nord ci sono le agenzie interinali che agiscono allo stesso modo. E’ il caporalato 2.0. Le agenzie si rivolgono ai caporali per trovare mano d’opera a basso costo. E spesso questi caporali sono rumeni e bulgari. I lavoratori, soprattutto stagionali, vengono spostati da una regione all’altra a secondo delle stagioni. Ed è proprio il trasporto, la tratta, ad essere uno dei punti forti dei caporali perché spesso gli imprenditori agricoli non possono permettersi di spostare tutti i giorni 50 – 100 lavoratori”.

Dopo l’approvazione della legge sul caporalato – prosegue Sagnetla magistratura ha iniziato ad avere gli strumenti per combattere queste pratiche. Sono partite ben 8000 inchieste e alcune di queste hanno colpito anche gli imprenditori oltre che i caporali. Tutto ciò, però, non basta. Per questo ho deciso, attraverso l’associazione NO CAP, di continuare la battaglia proponendo un modello di sviluppo differente partendo da 3 assunti: una riforma del mercato del lavoro agricolo e dei centri per l’impiego che non hanno più nessun peso nel reperire mano d’opera; una riforma dell’Ispettorato del lavoro che ad oggi non riesce ad effettuare controlli costanti; miglioramento delle condizioni di alloggio e trasporto dei lavoratori prevedendo aiuti economici agli imprenditori dell’agroalimentare . Inoltre – aggiunge Sagnet – aumentare la consapevolezza dei consumatori attraverso l’istituzione di un percorso di tracciabilità non solo biologico ma etico. Una certificazione che il prodotto e anche il lavoro sono di qualità”.

Mi sto impegnando – conclude il fondatore di NO CAP– affinché si possa creare una filiera corta alternativa alle multinazionali e alla grande distribuzione organizzata che da anni sta smantellando le piccole e medie imprese italiane. I compratori ormai decidono i prezzi e non più i produttori. Tutto ciò si ripercuote sui braccianti. Un modello di sviluppo diverso è possibile solo ribaltando i rapporti di forza tra le multinazionali agroalimentari e i piccoli produttori, restituendo il potere a questi ultimi oppure creando una filiera davvero alternativa”.