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di Anna Rita Santabarbara

Casal di Principe (Ce) –   Il 19 marzo 1994 a Casal di Principe moriva Don Peppe Diana. A condannarlo a morte, il clan  dei casalesi, che il sacerdote aveva osato sfidare e condannare pubblicamente in diverse  occasioni, prima fra tutte la lettera “Per amore del mio popolo”. 24 anni anni dopo la cittadina  di Casal di Principe ricorda don Peppino non con la consueta marcia, ma con un dibattito  pubblico aperto alla cittadinanza, a cui hanno preso parte importanti esponenti delle  istituzioni, tra cui il prefetto di Caserta, Raffaele Ruberto, il sostituto procuratore della DNA  (Direzione Nazionale Antimafia), Cesare Sirignano, e il coordinatore della DDA di Napoli, Luigi  Frunzio.

Pubblica amministrazione, corruzione, lavoro, formazione e sviluppo sociale sono solo alcuni  dei temi trattati. Particolare attenzione è stata rivolta ai contributi erogati agli imprenditori  vittime di estorsione: appena 138 nel 2017, pari a 18 milioni di euro, a fronte di 2500  richieste pervenute. Una goccia nel mare. Le cifre sono state riferite dal funzionario Maurizio  Casamassima. “La maggior parte delle richieste – spiega – non erano meritevoli di  accoglimento. Noi non diamo contributi a pioggia”. Ma perché molte richieste non sono state  accolte? In molti casi gli imprenditori di zone ad alta densità camorristica, come il Casertano,  scontano anche una certa ambiguità della legge, che lascia spazio all’interpretazione  personale, per cui una norma come quella che vieta l’erogazione del contributo per chi ha una  parentela entro il quarto grado con un esponente del clan, viene applicata in maniera rigida,  anche quando emerge che il beneficiario non ha mai fatto affari con le cosche. Una situazione  che riguarda anche le persone uccise dai clan, molte delle quali non ancora riconosciute dopo  decenni come vittime innocenti, a dispetto di sentenze definitive, e con i familiari che non  hanno ancora ricevuto alcun indennizzo. E’ il caso per esempio di Genovese Pagliuca, ucciso  nel 1995 dai Casalesi per punizione, ma mai riconosciuto come vittima dal Ministero perché  era amico di un esponente del clan, nonostante tutte le sentenze abbiano accertato la sua  estraneità alla cosca. Lo Stato – prosegue Casamassimanon può accettare alcuna forma di  contiguità tra i beneficiari dei contributi e i clan, ma non sempre – ammette – i rapporti di  parentela sono significativi, e quando emerge che il beneficiario non è in alcun modo vicino al  clan, il contributo va concesso, a prescindere dai legami familiari. Anzi come Commissariato,  presto presenteremo una proposta per allargare la platea dei beneficiari anche a quei  lavoratori vittima di caporalato”. Ma l’avvocato che difende molte vittime dei clan, Gianni Zara, obietta che “il legislatore deve intervenire per essere più chiaro. Lo chiediamo da  tempo”. Dello stesso parere è anche il pm Cesare Sirignano. “Se l’imprenditore denuncia i clan  e non lo fa in modo strumentale è giusto che lo Stato gli riconosca il contributo previsto per  legge. Qui nel Casertano abbiamo assistito ad imprenditori che facevano il doppio gioco, ma  non sempre è così. Va distinto caso per caso“.

Presenti oggi a Casal di Principe, tra gli imprenditori che hanno denunciato i propri estorsori  ma che non hanno ancora ricevuto nulla dallo Stato, Antonio Picascia, titolare della Cleprin,  azienda data alle fiamme dalla camorra e poi riaperta tra mille difficoltà burocratiche, e  Roberto Battaglia, che per colpa di strozzini ed estorsori del clan ha perso la propria azienda  agricola di Caiazzo. All’evento c’erano i sindaci di Marcianise Antonello Velardi, da poco sotto scorta, e quello di Casal di Principe Renato Natale, che ha chiesto “maggiore attenzione per il  mio Comune. Qui lo Stato si gioca una partita fondamentale, ovvero che è possibile che le cose  cambino anche in una realtà come la nostra, simile a territori come Corleone. Ma ci vogliono  più risorse, sia economiche che di competenze”.