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Caserta – Si allungano i tempi del processo Medea, in corso a Napoli, relativo agli appalti nel settore idrico concessi dalla Regione ad aziende vicine al clan dei Casalesi, in particolare al clan guidato dal boss Michele Zagaria, attualmente recluso al 41bis. Nel processo è imputato l’ex senatore Udeur Tommaso Barbato, funzionario regionale accusato di aver avuto legami con il clan cui avrebbe concesso numerosi appalti; qualche giorno fa in aula fu sentito il sindaco di Benevento Clemente Mastella che spiegò di non sapere nulla dell’attività di funzionario di Barbato.

Il Tribunale ha accolto tutte le richieste di integrazione probatoria avanzate dal pm della DDa di Napoli Maurizio Giordano che in questi mesi ha raccolto le dichiarazioni di due nuovi collaboratori di giustizia, Salvatore Orabona e Francesco Barbato, ex esponenti del clan dei Casalesi, i cui verbali sono poi stati depositati al processo. I due neo-pentiti saranno sentiti nell’udienza dell’11 ottobre prossimo; la sentenza, attesa per fine anno, dovrebbe arrivare nei primi mesi del 2018. Rilevante sarà la deposizione del 45enne Orabona, che negli interrogatori resi alla Dda ha raccontato della vicenda della pen drive di Michele Zagaria, mai ritrovata; un supporto a forma di cuore su cui vi sarebbero nomi di imprenditori e politici collusi e per la cui sparizione è indagato il poliziotto Oscar Vesevo, che anni fa, quando era alla Squadra Mobile di Napoli, partecipò alle indagini sulla cattura di Zagaria dirette dall’allora capo Vittorio Pisani, e nel 2011 prese parte al blitz che portò all’arresto del latitante.

Per la DDa Vesevo avrebbe trafugato la pen drive consegnandola per 50mila euro all’imprenditore del clan Orlando Fontana. Orabona riferisce di aver ascoltato nel luglio 2014, nel carcere di Terni, un colloquio tra Antonio Zagaria, fratello del boss, e l’esponente del clan Carlo Bianco, in cui si parlava della Usb a forma di cuore su cui c’erano nomi importanti, “e che Bianco doveva riportare alla famiglia del boss, in particolare a Filippo Capaldo, nipote di Michele Zagaria”; “la restituzione doveva avvenire dietro il pagamento di danaro a qualcuno di cui non fu fatto il nome”. Orabona si dice sicuro che la “restituzione è avvenuta”, poiché “quando nel luglio 2015 sui giornali si iniziò a parlare della pen drive trafugata dal covo in cui era stato stanato Zagaria, il fratello di quest’ultimo, Antonio, in quel periodo detenuto nel carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere, minimizzò la cosa con altri reclusi dicendo che non era vero quello che scrivevano i giornali sulla pen drive”; “pochi giorni dopo però, racconta Orabona, Antonio Zagaria, per “porre fine a quelle notizie”, diede ordine a Bianco, anch’egli detenuto ma in procinto di essere scarcerato, di procurarsi un pen drive a forma di cuore simile a quella del boss, di caricarla con contenuti per bambini e darla alla moglie del fiancheggiatore del clan Vincenzo Inquieto, per poi farla ritrovare alla Polizia, dicendo che apparteneva alla figlia di quest’ultimo, e non al boss”.

Inquieto era proprietario della casa dove fu catturato Michele Zagaria. Orabona riferisce anche di aver parlato in carcere, nel settembre 2015, della pen drive con un altro fedelissimo di Zagaria, Giuseppe Garofalo, che gli confermò che sul supporto vi erano “nomi di imprenditori e politici in gran parte di Trentola Ducenta, che poi sono stati arrestati”. Garofalo voleva pentirsi in quel periodo, riferisce Orabona, “voleva convocare i pm, tramite il suo avvocato. Poi però non so come sia andata”.  L’altro collaboratore, Barbato, negli interrogatori resi, ha parlato soprattutto della contrapposizione armata che vi fu tra Michele Zagaria e Nicola Schiavone in relazione ad alcuni appalti a Modena e in Emilia Romagna specie all’inizio degli anni 2000; furono anche bruciati degli escavatori di Zagaria.