“Una forza della natura”. La frase, pronunciata a mezza voce da alcuni spettatori mentre tutto il pubblico applaudiva in piedi il finale dello spettacolo, è forse la definizione più calzante rispetto alla performance appena terminata in un Teatro Romano di Benevento gremito fino all’inverosimile.
Perché Serena Rossi non ha solo cantato, recitato. Ha fatto molto di più: ha costruito un’onda, e il pubblico ci è entrato dentro senza esitazioni. ‘SereNata a Napoli‘ è uno spettacolo da abitare, un mosaico di canzoni, storie, miti, ricordi che si incastrano con naturalezza. Una Napoli che non è cartolina, non è retorica, ma corpo vivo, che piange e ride nello stesso istante. La voce di Serena passa dal sussurro intimo alla potenza travolgente, e ogni volta sembra cambiare volto: madre, amante, ragazzina scanzonata, sirena insonne.
Il filo è sottile ma robusto: Santa Lucia Luntana che diventa nostalgia collettiva; Tammurriata nera che incendia la scena come in un rito tribale; Dicintencello vuje che si trasforma in un piccolo teatro di gelosia e seduzione. E in mezzo, le storie: di chi è partito, di chi ha resistito, di chi ha riso anche davanti al dramma. Le immagini proiettate sul palco parlano di migranti, bambini, donne dimenticate ma mai mute.
E poi sei musicisti che non “accompagnano”, ma dialogano con lei: Antonio Ottaviano al pianoforte, la fisarmonica e il clarinetto di Luca Sbardella, il violino di Gennaro Desiderio, le percussioni di Michele Maione, Gianpaolo Ferrigno alle chitarre e Matteo Parisi al violoncello. Tutti insieme ricamano una città che non smette di reinventarsi.
E poi c’è lei, Serena, che alterna commozione e leggerezza con un tempismo da grande mattatrice: sa far ridere un attimo dopo aver fatto piangere, sa ironizzare sugli eccessi partenopei e un istante dopo commuovere raccontando di sua nonna e dei treni della felicità.
Il finale è stato inevitabile: il pubblico ai piedi della palco, canti, balli, tamburelli, applausi sinceri, sorrisi… perché Napoli è ‘ammore‘.