Tre sparatorie e un attentato dinamitardo in dieci giorni. Basta questo per cancellare, ancora una volta, la rassicurante illusione di una provincia immune dalla violenza criminale. Avellino non è l’isola felice che per anni si è raccontata, e probabilmente non lo è mai stata.
Qualche anno fa Mariano Di Palma, referente di Libera Campania ai microfoni di Anteprima24, lo disse chiaramente: “Non è certamente un’isola felice. Basti pensare al processo sul Nuovo Clan Partenio, agli attentati incendiari della Valle Caudina, o alla storica presenza dei clan nel Vallo di Lauro. E non solo”. Un monito che allora sembrò esagerato, quasi ingeneroso nei confronti di una comunità che si voleva dipingere diversa. Oggi quelle parole suonano come un avvertimento rimasto inascoltato.
Una bomba carta esplosa davanti a un bar, nel cuore di una strada di passaggio. Colpi di pistola che squarciano la notte nei quartieri popolari. Spari in pieno centro, a pochi passi dai passanti. Non sono fotogrammi di una serie televisiva, ma scene reali, consumate in una città che ama definirsi tranquilla, laboriosa, “di provincia”. Episodi che raccontano un clima di tensione sotterranea, un disagio che riaffiora con brutalità.
Certo, la camorra resta un fattore. Ma non è solo questione di clan. Dietro la polvere da sparo e le esplosioni c’è una società sempre più fragile, in bilico tra precarietà economica, assenza di prospettive e impoverimento culturale. È in questo terreno che cresce la convinzione che la forza sia l’unico linguaggio possibile, che le controversie si risolvano con il fuoco, che l’intimidazione sia l’unica via per affermare potere e controllo.
E così dinamiche apparentemente lontane – la popolarità effimera dei social, l’esigenza di apparire a tutti i costi, la ricerca del consenso facile – finiscono per intrecciarsi con la violenza di strada. Due mondi diversi, ma alimentati dalla stessa radice: il vuoto.
Avellino reagisce, sì. Con lo sgomento, con la paura, con i commenti indignati che rimbalzano sui social e nelle chiacchiere da bar. Ma è una reazione breve, che dura lo spazio di qualche giorno. Poi tutto scivola via. Il silenzio cala, la cronaca si sgonfia, e il racconto rassicurante torna a occupare la scena: “sono episodi isolati”, “la provincia non è come la metropoli”, “non siamo Napoli”.
È una forma di autoassoluzione collettiva, un rifugio comodo che però ha un prezzo altissimo: normalizza l’anomalia, addomestica la paura, riduce la gravità a eccezione. E intanto il pallottoliere degli episodi violenti continua a segnare numeri che non possono più essere ignorati.
La verità è che Avellino non ha solo un problema di sicurezza. Ha un problema morale, culturale, etico. Perché una comunità che si indigna soltanto nell’istante dell’esplosione e poi dimentica, consegna di fatto il territorio a chi usa la violenza come strumento di potere. È questo il rischio più grande: abituarsi.
Abituarsi all’eco dei proiettili. Abituarsi all’odore della polvere da sparo. Abituarsi alla bomba carta davanti a un locale come se fosse una notizia tra le altre. Abituarsi al buio che avanza un pezzo alla volta, mentre ci si racconta che si tratta di casi isolati.
Forse Avellino non è mai stata quell’isola felice che ha voluto credere di essere. Forse il mito serviva solo a proteggersi, a evitare di guardare in faccia una realtà più scomoda. Ma oggi non basta più raccontarsi favole. Oggi i colpi di pistola e gli ordigni esplosi hanno squarciato anche il velo delle illusioni.
Il compito di stabilire se siamo di fronte a una riorganizzazione criminale spetta alla magistratura e alle forze dell’ordine. Ma il compito di reagire come comunità spetta agli avellinesi. Perché il vero punto non è solo difendersi dalla violenza, ma impedire che diventi parte integrante della normalità.
Avellino non è, e non sarà mai, un’isola felice se continuerà a chiudere gli occhi. La sicurezza è una questione di ordine pubblico, ma il futuro di una città è soprattutto una questione di coscienza.