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Ferrara – “Ma che sta facendo, non mi dire che mo’ ce l’annulla”. Il ragazzo accanto a me non lo avevo mai visto. A fine primo tempo mi dirà che lavora in un’industria meccanica in provincia di Parma. Partito dal Sannio dopo la scuola, il destino me lo ha messo di fianco in questo cinereo pomeriggio ferrarese. Ha la sciarpa giallorossa del 2009, un anno che ricordiamo bene per ferite laceranti che ci hanno messo un po’ a sanarsi. “Per come sta andando quest’anno, ce lo toglie sicuro”, gli rispondo mentre vedo in lontananza l’arbitro guardare nel monitor il gol di Capellini e cancellare tutto.

La Spal sta vincendo uno a zero, Esposito ha stampato la palla all’angolino proprio davanti al nostro settore. Siamo poco più di duecentocinquanta, ci facciamo sentire nella fitta umidità e un po’ ci vogliamo bene. Perché accade qualcosa di magico quando si condivide un dolore, quando si prova la stessa sofferenza. E sembrerà assurdo, ma questo disgraziato Benevento, incerottato e affannato, ci tiene ancora più uniti. Ora che abbiamo paura, che sogniamo un gol che ci tiri su dall’inferno della zona retrocessione, è questo che succede.

A ciascun cross segue una preghiera, ogni uscita di Paleari è accompagnata da un sospiro. Ma è quando Capellini (ri)gonfia la rete che avverto un brivido salire lungo la schiena. Non vedo niente, ho il bandierone della Curva Sud che mi copre la visuale ma sento esplodere tutto, dentro e fuori. Pasquale, il ragazzo ‘di Parma’, mi strattona e mi fa capire che siamo ancora vivi. E nell’esultanza intravedo Antonio, mio ex compagno di università, una decina di metri più a sinistra, con gli occhi spiritati. Ma da quanto tempo non lo vedevo, Antonio? Ma che fine aveva fatto pure lui? Vabbè dopo lo vado a salutare.

Quanti ne siamo, mamma mia. Sembriamo pure molti di più. E quante facce del mio passato riemergono da questa foschia. “Oh guarda Farias, guarda Farias…”. Nemmeno il tempo di dirlo. Gol. Due a uno e sono di nuovo due gradoni più giù. Il mio giubbino non cede, ho fatto un buon investimento. Mi sento tirare a destra e a sinistra, e stavolta ho pure visto tutto. L’assist del brasiliano, il destro di La Gumina che buca le mani al portiere, il suo urlo che è anche il nostro urlo. Una liberazione infinita quanto la sofferenza finale. Come l’ansia che ci accompagna fino al termine. Siamo in vantaggio con un uomo in più, ma chi ce la fa a stare tranquillo. Qualcuno impreca, altri invocano santi, c’è chi chiama a casa per distrarsi. Di finali ne abbiamo vissute molte e questa di sicuro non lo è, ma quanto ci somiglia.

Il coro con cui accogliamo i giocatori a fine partita e i loro sguardi finalmente liberi lasciano intendere che il peggio potrebbe essere passato. Saluto Pasquale, ci scambiamo i numeri e ci diamo appuntamento alla prossima. Vuoi vedere che porta bene? Nel piazzale sento chiamare il mio nome. Mi giro, è un amico che di persona non vedevo da svariati anni, un altro che si è trasferito a Milano. Poi rivedo Antonio, che non ha più gli occhi alla Totò Schillaci ma ora è più calmo, rilassato, sollevato. Mi dice che lavora proprio a Ferrara in un’azienda informatica. E ancora Gianni, docente a Mantova, Roberto e Pasquale, entrambi  impiegati. Non pensavo fossero partiti così in tanti, che fossimo partiti così in tanti. Lontani dalla nostra amata terra che in cambio ha poco da darci, se non un’amara nostalgia. Ma questo è un altro discorso. Il Benevento ha vinto, siamo felici, sembra quasi di essere a casa. (cora).