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Esattamente venticinque anni fa Benevento viveva la sua rivoluzione. Con una percentuale di consensi clamorosa, superiore al 70 per cento, il 5 dicembre del 1993 diventava sindaco Pasquale Viespoli. “Un risultato imprevedibile” – ricorda il protagonista principale di quella pagina di storia.

Una vittoria che non si può spiegare senza far riferimento al nuovo sistema di elezione dei sindaci entrato in vigore proprio quell’anno. Per la prima volta, ai cittadini veniva chiesto di scegliere direttamente, bypassando l’intermediazione dei partiti, il loro più alto rappresentante al Comune.

Iniziava la “stagione dei sindaci” e Benevento sorprendeva l’Italia intera scegliendo di rompere con il passato.

Quella è stata forse l’unica riforma istituzionale ad aver determinato un mutamento reale delle cose” –  ribadisce ancora oggi Viespoli.

L’esito del voto fu imprevedibile” – inizia a raccontare. “Ricordo che contro di me si schierava una coalizione intestata a Clemente Mastella – che è ovviamente lo stesso Clemente Mastella di oggi – e Umberto Del Basso De Caro. Cercarono di frenare l’introduzione di un rapporto diretto tra sindaco e cittadini attraverso la logica della sommatoria delle liste, pensando che il baricentro fossero i partiti e non il candidato. E sbagliarono. Con il voto disgiunto, la loro coalizione raccolse la maggioranza dei seggi in Consiglio ma il candidato sindaco restò molto al di sotto rispetto al risultato dei partiti. E al ballottaggio, poi, non ci fu storia”.

Perché?

La riforma imponeva un cambio di mentalità, innanzitutto nella testa dei gruppi dirigenti. Metteva al centro del dibattito politico il territorio e non i partiti. Non a caso mi candidai con una lista priva del simbolo Msi. Si chiamava ‘Partecipazione’. Insomma, interpretai il cambiamento avvenuto. Inoltre, la stagione dei sindaci nasceva anche in polemica con gli stessi partiti di provenienza. Se guardo alla mia storia politica, ad esempio, trovo che, in termini di sostegno e consenso nei miei riguardi, certa destra non c’era allora, nel 1993, e non c’è oggi. La mia fu una competizione contro l’avversario ma anche contro il fuoco amico”.

In compenso, però, al suo fianco finì per ritrovarsi anche tanta sinistra.

Assolutamente sì. Ci fu una presa di posizione coraggiosa, in piena autonomia, dell’allora segretario del Pds Angelo Irano. Pubblicamente, fece una dichiarazione di voto in mio sostegno. Arrivò anche una sorta di smentita indiretta e opportunistica da parte di Massimo D’Alema. In pratica, Mastella si dichiarava disposto a sostenere Bassolino a Napoli in cambio di un supporto al suo candidato qui a Benevento. La risposta di D’Alema suonava più o meno così: meglio un democristiano che un fascista”.

Un consiglio che, però, non tutti accolsero nel capoluogo sannita.

Sulla scia di quella dichiarazione di D’Alema arrivò anche un volantino, o un volantone, dei sindacati. Ma quelle frasi ebbero un effetto boomerang”.

Come se lo spiega?

Per quello che le dicevo prima. Le frasi di D’Alema stridevano con lo spirito di una legge che restituiva protagonismo e centralità ai territori. E lo stesso tentativo di utilizzare l’antifascismo non riuscì proprio perché il candidato sindaco era una figura conosciuta dai cittadini. La gente sapeva chi ero e si rendeva conto della sproporzione rispetto a quanto veniva raccontato”.

Eletto sindaco ma senza maggioranza in Consiglio, ricordava prima. Una situazione analoga è accaduta ad Avellino, la scorsa primavera. Ma è andata a finire diversamente.

“Non vedo tante analogie, per la verità, se non il fatto che anche il candidato del M5S correva solo contro tutti. Ma il contesto di riferimento è diverso. A partire dal fatto che quella era la prima volta che si votava con la nuova legge. E la mia era una candidatura più di territorio che politica. E comunque, è inutile vincere se poi non puoi governare”.

Al M5S ad Avellino, dunque, è mancata cultura di governo?

Sono mancate cultura di governo e radicamento. Detto questo è giusto riconoscere che il M5S ha compiuto una impresa importante ad Avellino. Nonostante questi limiti di partenza il risultato elettorale è stato significativo”.

Lei, invece, dopo aver vinto è riuscito anche a governare. E’ stato rieletto e dopo di lei ha vinto D’Alessandro.

Questo perché non rappresentavamo soltanto la novità del momento. Avevamo idee, proposte. Voglio ricordare, anche a chi amministra oggi, che io con il dissesto ho governato otto anni. Ho trovato una situazione economico-finanziaria disastrosa. Cosa dovevo fare? Le alternative erano andarmene oppure cercare e creare occasioni e opportunità. Ho scelto la seconda opzione”.

Cosa ricorda con maggiore orgoglio della sua esperienza da sindaco?

La cosa che non dimenticherò mai risale alla notte della mia seconda elezione, nel 1996. Quando il risultato era ormai chiaro, Perifano fece un gesto di grande qualità istituzionale, scendendo a salutarmi e a farmi i complimenti. Una testimonianza di come la civiltà, in politica, debba sempre prevalere anche nei momenti di scontro. Dal punto di vista realizzativo, invece, voglio citare la costruzione dell’ex provveditorato al rione Libertà. Non avevamo alcuna risorsa da destinare agli investimenti. Ci inventammo allora una strada innovativa per intervenire. Noi decidemmo cosa fare, non abdicando dunque al compito di offrire soluzioni che è proprio della politica, e le risorse le investirono i privati che poi rientrano attraverso l’intesa con la Provincia”.

E il rammarico più grande?

Non aver completato il programma di recupero urbano del rione Libertà. Abbiamo fatto tanto, intendiamoci, puntando sul trasferimento delle funzioni – ricordo anche la scelta di insediare la sede dei Vigili Urbani all’ex Lazzaretto – per rompere la marginalizzazione del rione. Non abbiamo completato quel percorso e negli anni successivi sono poi state assunte scelte sbagliate, sbagliatissime. E questo perché è mancata l’intelligenza di comprendere che quando vai ad amministrare devi farti carico anche del passato. La mia grande amarezza è questa. Abbiamo fatto molto per il rione Libertà ma il disegno era ben più complesso”.

Torniamo al ’93. La sua vicenda personale si inseriva in quella della destra italiana, in ascesa e destinata a tornare al governo del Paese

Il risultato politico di Benevento ebbe un impatto importante nel dibattito politico nazionale. E’ vero che anche in altre realtà la destra ottenne risultati significativi. Ma io diventai sindaco. Aveva vinto un uomo di destra ed era la dimostrazione che la destra poteva vincere. Si rompeva quella marginalizzazione – dovuta anche a un discorso costituzionale – della destra. Ma anche la rielezione fu importante. Nel 1996 i centristi volevano riaffermare che la destra era figlia di un Dio minore. Il mio successo dimostrò che non esisteva alcun automatismo: non vinci sole se sei un centrista”.

L’ultima domanda è sull’attualità. Adesso quando si pensa alla destra il pensiero corre a Salvini. Tanti ex An, infatti, stanno aderendo alla Lega. Cosa ne pensa?

Io il dialogo con la Lega l’ho instaurato in tempi non sospetti. Conservo il ricordo di una iniziativa assunta con la Lega quando il Carroccio era sinonimo di Senatur. Compresi subito che si trattava di una soggettività politica con cui interloquire. Una convinzione che si è rafforzata nel tempo, avendo svolto il ruolo di sottosegretario con Maroni ministro. Questo per dire che c’è sempre stata da parte mia una sorta di complicità, di dialogo, con la Lega. E oggi dico che è necessario misurarsi e confrontarsi con Salvini, leader del centrodestra prossimo venturo. Ma quando vedo che la destra, per convinzione o per opportunismo, perde pezzi in quella direzione dico che è un fallimento. E’ un esito che non mi piace. Con Salvini bisogna interloquire costruendo una operazione politico-culturale che assecondi il recupero dell’unità nazionale e la prospettiva della valorizzazione del Sud come interesse nazionale. Insomma: una cosa è discutere con Salvini, altra cosa è aderire. Che poi mi risulta strano che quelli che maggiormente rappresentavano e rappresentano un’area di destra fortemente nazionalista siano poi gli aderenti alla Lega. Capisco la delusione per le vicende recenti della destra ma c’è qualcosa che non funziona”.

Sintetizzando, serve ancora una destra autonoma.

Bisogna essere autonomi e non subalterni. Se non c’è la destra con la sua autonomia e la sua organizzazione viene a mancare un pezzo importante nella politica italiana. Perché destra è funzione nazionale. E’ la spinta a rinnovare il modello istituzionale. Allo stesso tempo, manca un pezzo importante se viene meno la sinistra, sempre più marginalizzata”. “E’ un tempo senza storia e senza storie” – conclude Pasquale Viespoli. “Conta il pensiero breve, il tweet, la sconcertante banalizzazione dei problemi. Viviamo la dimensione del presente senza passato e senza prospettive”.