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Un punto di svolta, un’esperienza che lo ha cambiato nel profondo. Così Nicolas Viola, oggi trequartista del Cagliari, ha ricordato la sua parentesi al Benevento Calcio durante un’intervista rilasciata nel podcast ufficiale del club sardo.

Arrivato nel Sannio in un momento chiave della sua carriera, Viola ha raccontato: “Mi ha dato tantissimo, ho conosciuto persone che mi hanno cambiato: ero in piena maturità a 27/28 anni. Roberto De Zerbi è stato decisivo anche se si stava affacciando al mondo del calcio, non era ancora un allenatore molto conosciuto. Lui ha proposto qualcosa di differente che mi ha portato a dovermi mettere in discussione, dovevo capire a cosa mi avrebbe portato quella squadra. Mi ha svoltato la carriera: all’inizio non giocavo e sono migliorato quando ho capito che non potevo attribuire la responsabilità di questo agli altri. Ho capito che tutto dipendeva da me!».

La parentesi a Benevento ha segnato anche un passaggio delicato, quello della retrocessione. Il centrocampista calabrese ha ricordato l’amarezza per l’epilogo, avvenuto proprio in una sfida contro il Cagliari: “In quell’occasione ho parlato pochissimo. Poteva succedere con il Cagliari come con il Milan o la Juventus. A prescindere da tutto, ci vuole rispetto quando si parla. Io ho provato rabbia, ma ho preferito il silenzio”.

Con Benevento è anche maturato il sogno della Nazionale, come confessato durante il podcast: “Da piccolo il massimo per me era arrivare in Serie A perché dal mio paese non ci era mai riuscito nessuno. Ho fatto tanti sconti sui miei sogni e fare questo mi ha tolto tanto, è stato un rammarico per me: ho capito che ci sono stati due step nella mia carriera. Il primo è stato prima di incontrare De Zerbi, il secondo inizia da quando l’ho conosciuto. Sulla Nazionale posso dirti una cosa relativa a quando Pippo Inzaghi venne ad allenarmi a Benevento. La prima volta che mi vide mi disse che sarei stato uno dei suoi punti fermi, chiedendomi dov’è che volessi arrivare. Io gli dissi che per quanto fossimo in Serie B, il mio pensiero fisso era quello di arrivare in Nazionale. Lui rimase sconvolto ma vedendomi allenare capì questa mia esigenza, lui mi ha lasciato dei ricordi importantissimi: come muovermi in area e lo spirito vincente».

Vita privata e quella passione per i tatuaggi:«A me sono sempre piaciuti, anche quelli in faccia, non è una questione di piacere agli altri o meno; io la vedo come una forma d’arte. In psicoanalisi mi è tornata in mente la frase di mio papà che mi diceva “Sei bello senza tatuaggi”, in quel momento potevo avercela con lui perché non riuscivo a manifestare bene: ero ancora troppo attaccato al cordone ombelicale. Ho vissuto un tipo di adolescenza nel quale c’è stata della ribellione, non parlavo molto anche io e comunicavo meglio con le cose che mi scrivevo addosso. Diventare padre è stato come mettersi in gioco, non si nasce sapendo com’è essere padre. A quel punto le strade erano due dato che avevo avuto un infanzia un po’ travagliata: o imparare a capire o crescere i miei figli come ha fatto mio padre con me. Ho provato a studiare per rieducare me stesso, i bambini sono un libro bianco sul quale scrivi cose che rimangono per sempre. In questo modo è iniziato il mio percorso di studi in psicologia: facendo ciò ho imparato soprattutto delle cose su me stesso. Ho risolto delle cose che mi sono portato dietro per molti anni».