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Benevento – Riceviamo e pubblichiamo la lettera del medico chirurgo Claudio De Pietro, residente nel centro storico, a seguito dei recenti fatti violenti verificatisi nel capoluogo. Di seguito il testo: 

Risiedo a Benevento, a ridosso di piazza Piano di Corte. Sono anni ormai che ripeto – e tanti altri come me – che il fenomeno denominato impropriamente “movida” è un problema di natura culturale e sociale prima di tutto ma i disastri che provoca danneggiano materialmente le persone e ne calpestano i diritti. Però l’afonia storica dei cittadini di Benevento ha impedito la creazione di associazioni veramente e fermamente intenzionate a cambiare le cose, mettendo in campo anche iniziative di forza appropriata alla situazione. Il comitato di quartiere, dal quale mi sono allontanato tempo fa non condividendone tattica e strategia, non ha trovato di meglio da fare  che allearsi con gli esercenti per combattere i soprusi. Come se il condannato a morte si alleasse col suo carnefice. Insomma, se la “movida” ha deteriorato in modo così pesante la vita dei cittadini residenti in una parte del centro storico di Benevento, le responsabilità sono da dividersi in parti eque fra molteplici figure, istituzionali e non, da un ventennio a questa parte:

  • in questi anni in vicoletti angusti si sono concentrate decine e decine di attività che distribuivano, innanzitutto, gran quantità di decibel da woofer esagerati anche per uno stadio. Non si è fatto nulla;
  • i locali si moltiplicavano, occupando anche i più piccoli “bassi”, e con questi si moltiplicavano i loro “clienti”. Non si è fatto nulla;
  • così i frequentatori sono diventati fiumane, muri umani invalicabili, con tutte le conseguenze del caso. Non si è fatto nulla;
  • gli esercenti hanno cominciato ad occupare motu proprio le già ristrette stradine con tavoli, poltrone, divani, sedie e strapuntini, in maniera da ostruire completamente le pubbliche vie e renderle impermeabili a qualsiasi transito e non si facevano eccezioni nemmeno per i mezzi di soccorso. Io stesso, quando sono stato chiamato di notte in ospedale per interventi d’urgenza, ho avuto sempre due problemi fondamentali: primo, raggiungere l’ospedale in tempo utile, muovendomi attraverso i vicoli intasati con grave rischio personale e dei pazienti che erano in attesa sul letto operatorio del mio intervento; secondo tornare a casa, quando la prestazione si concludeva prima dell’alba. Non si è fatto nulla, anzi di più: in epoca COVID si sono favoriti – etutt’ora si favoriscono – i commercianti consentendo loro di occupare il suolo pubblico ed esentandoli dal pagare la relativa tassa, allo scopo di favorire il distanziamento, semplicemente impossibile visto l’enorme afflusso di persone;
  • sono state assaltate auto delle pattuglie di polizia e carabinieri. Non si è fatto nulla;
  • la stragrande maggioranza delle continue risse e violenze di ogni genere non sono state nemmeno denunciate. Figurarsi se qualcuno si possa essere preoccupato di fare qualcosa.

Noto è a tutti che gli spazi pubblici, dagli stadi agli auditorium, dai cinema alle sale da bowling, dal supermercato allo studio del dentista devono rispondere a determinati requisiti di sicurezza anche per stabilire la capienza massima, devono disporre di spazi di fuga adeguati, altrimenti non possono aprire o si vedono limitare le attività. Tutto questo per il centro storico non è mai valso.

Conseguenza logica di tutto ciò è stata la perdita del controllo di quella parte della città. E poi, si sa, la moltitudine equivale ad anonimato e impunità, un pabulum in cui può più facilmente sguazzare ogni tipo di criminale.

L’ultimo gravissimo ferimento di due persone, una delle quali ha richiesto assistenza rianimativa con tanto di intubazione tracheale, è solo un capitolo, temo solo per il momento l’ultimo, di questo disastro. Difficile districarsi per noi semplici cittadini nell’individuazione delle cause e delle responsabilità soggettive. Oggettivamente, però, la vita di questo giovane è in pericolo; nessuno può negare che il contesto in cui l’alterco è scoppiato è, diciamo così, il più favorevole allo scatenarsi di una violenza belluina.

A fronte di tutto ciò, mentre un giovane è attaccato ad un respiratore artificiale, leggo che c’è una sedicente “imprenditrice” la quale, ammantandosi di un vittimismo del tutto fuori luogo, propone varie iniziative di protesta; fra le altre, vorrebbe insorgere contro la scarsa efficienza degli operatori dell’ASIA che io, al contrario, vedo costretti a lavorare tutte le mattine fino a tardi, data la sovrabbondanza di pattume e liquami di ogni genere abbandonati dai “movidari” nottetempo, per poter recuperare un po’ di dignità alle nostre stradine, anche se solo per qualche ora, fino alla notte successiva. Non so se sia la stessa “imprenditrice”, o una sua stretta congiunta, che qualche giorno fa suggeriva ai residenti che si ritenessero veramente civili di aprire i loro cessi a tutte le vesciche, stomaci e retti ripieni dei movidari di passaggio, bisognevoli di una liberatoria evacuazione. In altri termini, i commercianti si arricchiscono imbottendo i loro clienti di ogni cosa e i residenti dovrebbero far loro svuotare gli ingombri visceri. Il massimo del sadismo! E ancora auspicava l’istallazione di cessi pubblici che immaginava chimici o allocati nei “bassi” rimasti vuoti (e fatiscenti). I costi, immagino rilevanti, sarebbero dovuti essere sostenuti, ovviamente, dalla comunità. In pratica, la zona a ridosso del monumento UNESCO di Santa Sofia trasformata nella fiera dei cessi! Vaneggiamenti bisognevoli di importanti cure o sfrontatezza di chi non teme il ridicolo, pur di difendere i propri interessi pecuniari? Rimane un ragazzo che lotta fra la vita e la morte; ma questa non sembra essere la maggiore delle preoccupazioni dell’”imprenditrice”.

Ora, ho sempre detto e qui ripetuto che io rispetto il lavoro di tutti ma solo di tutti quelli che preliminarmente rispettino le regole e le comunità. Altrimenti i morti dell’ILVA, quelli scoppiati nei campi, quelli stritolati in macchinari a cui erano stati inattivati i sistemi di sicurezza per la voracità dei cosiddetti imprenditori subirebbero un ulteriore oltraggio.

Mi piacerebbe pensare che tutto questo non debba essere un problema dei soli residenti di un rione martoriato ma di chiunque si senta cittadino, facente parte di una comunità la quale, fra tanti problemi, volesse rivendicare per sé e condividere con tutti la possibilità di godere dei diritti più elementari, come leggere, dormire, guardare un film o ascoltare della musica ma anche camminare senza il timore di calpestare escrementi solidi ad ogni passo o uscire di casa senza dover aver paura di rientrarvi.

Non vedo alternative alla smobilitazione della gran parte di questi locali, la maggior parte dei quali non ha nulla a che vedere con i servizi di ristorazione, che oltretutto, tipicamente, chiudono quando è trascorsa l’ora di cena, senza bisogno di nessuna ordinanza. Addirittura è già successo che ristoratori “veri” si sono trovati costretti a lasciare il centro storico, a trasferirsi altrove, perché hanno ritenuto le loro attività incompatibili col marasma movidaro; e altri pensano di farlo, lasciando sempre più campo ad attività di tutt’altra specie. Invece, la riduzione corposa della concentrazione smodata di pub, birrerie e simili  favorirebbe la dispersione delle folle che attualmente forniscono il paravento – vorrei dire l’innesco – alle attività più odiose, risse comprese ma non solo. A quel punto – e solo a quel punto – gli auspicati controlli potrebbero avere una qualche efficacia. Non si costruisce sul fango.

Il resto è fuffa.

Non sta a me indicare gli strumenti ma credo che basterebbe verificare le condizioni igieniche di quei tanti locali per farne ordinare la chiusura di buona parte. Segnaletica, stalli, illuminazione, cestini dei rifiuti, tutte cose utili ma solo nel momento in cui il nostro quartiere fosse recuperato alla normalità. Normalità significa sicurezza anche per i ragazzi che non dovrebbero rischiare la vita per bere una birra in compagnia.

Un sincero augurio di completa e pronta guarigione ai due ragazzi feriti.