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E’ ripreso al tribunale di Santa Maria Capua Vetere, dopo mesi di pausa per la pandemia, il processo “bis” a sette ex dirigenti della Firema, azienda casertana che produce carrozze ferroviarie, dal luglio 2015 denominata “Tfa” e di proprietà indiana, imputati per omicidio e lesioni colpose in relazione alle morti e alle malattie di decine di dipendenti Firema causate dall’esposizione all’amianto. 

Quando è iniziato il processo – gennaio 2020 – gli imputati erano otto, ma nel frattempo l’ultranovantenne Mario Pasquali, ex direttore generale dell’azienda ferroviaria, è deceduto. Oggi, nell’aula del giudice monocratico Valerio Riello, non era presente nessuno degli altri sette imputati, ovvero gli ex amministratori delegati dell’azienda Mario Fiore e Giovanni Fiore e gli alti ex dirigenti Enzo Ianuario, Maurizio Russo, Giovanni Iardino, Giuseppe Ricci e Carlo Regazzoni.

Gli ex dirigenti Ricci e Russo erano usciti indenni per assoluzione dal primo processo, in cui la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere aveva contestato il reato più lieve di rimozione e omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro (articolo 437 codice penale). Poi l’ufficio inquirente – sostituto Giacomo Urbano – ha aperto una seconda indagine, contestando però l’omicidio colposo e indagando altri amministratori succedutisi negli anni. Una strategia che ricorda quella seguita dalla Procura della Repubblica di Torino in relazione alla vicenda dell’Eternit, dove il proprietario dell’azienda, l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, era stato salvato in Cassazione dalla prescrizione dopo essere stato condannato in primo e secondo grado a 16 e 18 anni per disastro colposo in relazione a decine di decessi per amianto; l’ufficio inquirente aveva così deciso di aprire un nuovo fascicolo a carico di Schmidheiny per omicidio doloso (poi derubricato in delitto colposo), sfruttando anche la sentenza della Corte Costituzionale numero 200 del luglio 2016, che aveva dichiarato l’imprenditore processabile nuovamente nonostante la condotta fosse la stessa, e ciò senza che venisse violato il principio giuridico del “ne bis in idem”.

Proprio sfruttando tale pronuncia, il giudice del processo Firema ha rigettato oggi l’istanza dei legali degli imputati, che chiedevano di dichiarare l’improcedibilità del processo per violazione del “ne bis in idem”. “Nel primo processo – ha detto Riellonon è stata verificata la sussistenza del nesso di causalità tra i singoli episodi di morte o malattia degli operai e l’esposizione all’amianto”. In tale vicenda, la Procura di Santa Maria Capua Vetere contesta agli imputati la morte di 19 operai per patologie legate all’amianto, e le lesioni in relazione alla malattia contratta da altri 82 lavoratori Firema.

Tra le vittime solo qualche decina si è costituita parte civile nel processo attuale, e per alcuni di loro, in particolare per quelli ammalatisi ma non deceduti, è probabile che possa scattare già dalle prossime udienze (previste per l’otto aprile e il 20 maggio) la prescrizione del reato di lesioni colpose, che è di 7 anni e mezzo; in tal caso la loro pretesa risarcitoria non verrà riconosciuta, essendo venuto meno il reato da cui traeva origine. Ciò potrebbe accadere anche per qualche vittima deceduta (l’omicidio colposo si prescrive in 15 anni), che è rappresentata in giudizio dai familiari. Determinante sarà la ricognizione del pm Urbano sulla data di insorgenza delle patologie per i malati, e della morte per i deceduti, eventi da cui si calcola la prescrizione.