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Non fu accidentale ma doloso il rogo il 24 luglio 2015 devastò a Sessa Aurunca, nel Casertano, l’azienda di detersivi Cleprin, di proprietà di Antonio Picascia, imprenditore del Casertano più volte minacciato dalla camorra insieme al socio Franco Beneduce dopo aver denunciato, fatto arrestare e condannare gli estorsori del clan Esposito. Ne è convinta la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) che ha riaperto l’indagine sul rogo che era stata archiviata ad aprile del 2016.

Appena il 20 marzo scorso Picascia ha riaperto con le proprie forze la Cleprin a Carinola, in un luogo diverso ma vicino alla sede data alle fiamme. Nonostante Picascia sia oggi a tutti gli effetti un imprenditore anti-camorra, che dopo il rogo ricevette anche la scorta dalle forze dell’ordine – salvo poi rinunciarvi volontariamente qualche mese dopo – l’indagine sull’incendio di due anni fa non ha mai accertato la matrice camorristica, anche a causa di presunti depistaggi accertati da Picascia e dai suoi legali. Subito dopo il rogo le forze dell’ordine parlarono di camorra, poi però quella pista fu lentamente abbandonata e addirittura si parlò di rogo non doloso; pochi mesi dopo, ad aprile 2016, con le indagini su un binario morto, il fascicolo aperto contro ignoti dal pm Carlo Fucci fu così archiviato dal Gip del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.

“Da allora – spiega Picascia – ho iniziato una battaglia legale perché è giusto che si sappia che i reali responsabili del rogo sono quei camorristi che non hanno mai smesso di crearmi problemi”. Il primo passo di Picascia dopo l’archiviazione fu di farsi consegnare copia del fascicolo di indagine e smontare il complesso di notizie false a suo carico, che erano state decisive nell’impedirgli di avere il risarcimento dal Fondo Vittime del Racket e dell’Usura. Primo presunto depistaggio le parole di un confidente della polizia riportate in una nota di un ispettore in servizio al Commissariato di Sessa Aurunca, secondo cui erano stati Picascia e il socio a dar fuoco all’azienda per intascare l’assicurazione e pagare un maxi-debito contratto con la Banca Cooperativa del Garigliano. “Ma noi in quella banca non abbiamo mai avuto conti correnti”; un’altra nota a firma del dirigente del Commissariato, ipotizzava che il confidente potesse aver detto il falso. Seconda notizia non vera quella contenuta in un’informativa dei carabinieri di Caserta, che riportava che Picascia fosse vicino al boss Michele Zagaria e per questo legame avesse vinto l’appalto all’ospedale di Caserta per la fornitura dei detersivi. “Falso anche questo in quanto non ho mai vinto appalti all’ospedale né ho mai iscritto la mia azienda all’albo dei fornitori”.

Nel fascicolo, incredibilmente, si riportavano anche le parole di un testimone oculare che aveva visto un’auto a fari spenti allontanarsi dalla Cleprin dopo che era scoppiato l’incendio, e un’altra informativa in cui si dava atto della presenza, nell’abitazione di un dipendente Cleprin ubicata di fronte all’azienda, di Vincenzo Esposito, figlio del boss di camorra Mario Esposito. Picascia commissionò poi una consulenza al Dipartimento di Fisica e Chimica dell’Università di Salerno, affinché accertasse la natura del rogo; gli esperti dell’Ateneo hanno concluso che il rogo era senz’altro doloso. A questo punto l’imprenditore si è rivolto al Ministro della Giustizia Andrea Orlando e al presidente di Libera don Luigi Ciotti; quest’ultimo gli ha suggerito di provare a far riaprire le indagini. E’ entrato così in scena l’avvocato Luigi Imperato, che dopo due mesi di lavoro ha presentato richieste di riapertura al pm Fucci. “In base alla giurisprudenza della Cassazione – spiega il legale – il pm può riaprire in autonomia un’indagine archiviata, senza passare dal gip, qualora il fascicolo sia contro ignoti. Fucci ha accolto questa tesi decidendo per la riapertura anche grazie allo studio dell’Università di Salerno che ha apportato un elemento di novità e alla rilettura degli atti di indagine”.