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Marco D’amore, dopo due anni dalla fine della quarta stagione di ‘Gomorra – La Serie‘ e dopo il successo del film L’Immortale, si racconta al CorSera e parla del suo rapporto con il personaggio che interpreta dal 2014 e che gli ha donato tanta popolarità, e anticipa anche qualcosa sulla quinta ed ultima stagione. “Ciro torna redivivo, in Lettonia, dove si ricostruisce una vita col diktat di non tenare indietro. Ma il nemico-amico Genny si mette sulle se tracce. E torna in Italia. Dopo la seconda stagione volevo che Ciro sparisse, mi sentivo estraneo, al provino non me ne fregava nulla anche perchè facevo teatro di qualità, avevo tante proposte. C’era anche un po’ di snobismo. Non immaginavo che quel personaggio mi avrebbe cambiato la vita”. 

Il personaggio di Ciro Di Marzio, grazie allora spin-off della celeberrima fiction ispirata all’omonimo best seller di Roberto Saviano, ha lasciato il pubblico con la curiosità di scoprire in che modo verrà chiuso il cerchio nel quinto ed ultimo ciclo di episodi dello show. “C’è un’evoluzione continua in lui, sentivo che gli mancava una nota di calore che lo rendesse strano, storto, è violento ma si commuove, atti atroci e piccoli gesti che lo rendono umano. E ha a creato un corto circuito. Chi dice che con Gomorra si crea il rischio emulazione nei giovani non ha mai visto i giochi violenti della playstation, non ha mai seguito un video virale. Il rischio emulazione è nei politici che non considerano l’umanità disgraziata per la propria salvaguardia personale”. 

Marco racconta la sua infanzia a Caserta, trascorsa con il fratello Giuliano: “Siamo cresciuti con chi faceva una vita normale e con chi è andato incontro a una fine disperata. Mi rivedo in ‘C’era una volta in America’ di Sergio Leone. Ho avuto un’infanzia memorabile, lo dico guardando con tristezza alle nuove generazioni, alle loro utopie commerciali. Per strada di notte ce la cavavamo con gente più grande che ci ha fortificati, in un quartiere dove c’era bisogno di abilità per sopravvivere”.

Caserta negli anni ’90 era “il luogo dei Casalesi. Il centro era un po più chic, lì loro scendevano come orde a colonizzare la città” ha spiegato l’attore casertano. “Nel mio liceo scientifico, il Diaz, si appostavano per fare la corte alle ragazze, si creavano capannelli, le scene di violenza cruenta erano all’ordine del giorno. Io invece ero quello che parlava forbito, il che mi dava un certo rispetto e curiosità. Poi ero creativo, facevo ridere, suonavo il flauto e il clarinetto. Era un mondo di bische, di sale gioco, di contrabbando… Il racconto della povertà lo vedevo. Al liceo c’era Roberto Saviano. Lo chiamavano l’indiano, aveva i capelli lisci fin dietro la schiena. Era piuttosto impegnato, mentre per tanti di noi la scuola occupata era il cazzeggio di non andarci. Facemmo l’autogestione più lunga d’Italia”.