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Caserta – Katia Tondi non è stata uccisa né da un serial killer né in seguito ad una rapina, ma dal marito Emilio Lavoretano, che ha sempre cercato di sviare le indagini, e che va condannato”. Sono le parole più significative dell’arringa tenuta in Corte d’Appello a Napoli da Gianluca Giordano, avvocato di parte civile che assiste padre, madre e fratello di Katia Tondi, la 31enne uccisa il 20 luglio del 2013 nella sua abitazione di San Tammaro, nel Casertano. Giordano si è associato alle richieste del sostituto procuratore generale di Napoli Raffaele Marino, che il 16 aprile scorso aveva chiesto, al termine delle requisitoria, la conferma in Appello della condanna a 27 anni di carcere che Emilio Lavoretano aveva ricevuto in primo grado dalla Corte d’Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere (gennaio 2020). Marino aveva detto, ritenendo schiaccianti le prove raccolte, che “se io fossi in Lavoretano, confesserei”.

Il marito della Tondi, in carcere dai giorni successivi alla sentenza di primo grado, si è invece sempre professato innocente, e secondo la parte civile avrebbe tentato più volte di sviare le indagini, sin dall’inizio, quando immediatamente dopo il ritrovamento del corpo di Katia presentò uno scontrino della spesa per dimostrare che quando era stata uccisa la moglie lui era al supermercato, “poi accusando altre persone”. Dal processo di primo grado è emerso che Katia fu uccisa alle 18, quando Lavoretano era in casa. Il legale ha anche smentito ogni ricostruzione alternativa, come quella di una tentata rapina. “Non c’era segni di effrazione alla porta” ha ricordato Giordano, secondo cui il movente dell’omicidio è da ricercare nel tentativo di Katia di ribellarsi ad un marito che la teneva isolata, che non la faceva quasi mai uscire e non le garantiva alcuna indipendenza economica; la ragazza non frequentava nessuno. La prossima udienza ci sarà il 19 maggio, quando inizieranno a discutere i due difensori dell’imputato (Carlo De Stavola e Elisabetta Carfora).