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Napoli, come diceva Benedetto Croce è un Paradiso abitato da Diavoli per descriverne la bellezza sofferente che si infrange contro le storture dell’umanità che la abita. Un’umanità varia popola Napoli, la aggredisce e la protegge. La nostra città è così, il suo fascino si nutre di contrasti che si fondono, così ogni suo tratto ha sempre contrapposte prospettive.

Uno degli aspetti più singolari e fortemente radicati nel passato, è il dualismo che persiste nell’approccio al Sacro. Esiste un impasto di religione e leggenda, di cristianesimo e paganesimo; a Napoli c’è un forte legame tra, fede e superstizione e talvolta i due mondi si intersecano e se ne perdono i confini.

È proprio durante le feste religiose che questa commistione prende forma, siamo nel periodo di Quaresima, prossimi ai giorni santi della settimana di Pasqua e si avverte la necessità di vivere la propria fede in maniera piena e profonda attraverso il culto religioso e con la medesima sacralità e lo stesso rispetto, attraverso il cibo, tipico di queste giornate, come un rito nel rito.

Il Giovedì Santo, giorno dei Sepolcri, i fedeli fanno visita alla cappella della Reposizione. La visita va fatta in sette chiese diverse recitando ogni volta Gloria, Ave Maria e Pater. La tradizione culinaria prevede anche che si mangi ‘a zuppa ‘e cozzeche, un rito che risale al tempo di Ferdinando I, così, si mischiano preghiere ed ingredienti, con la stessa passione con cui si cucinano insieme cozze, polpo e, secondo alcune versioni, anche con i maruzzielli, ossia le lumache di mare, freselle condite con ‘o rruss’, l’olio rosso piccante.

Il Venerdì Santo è dedicato alla tradizione della Via Crucis, la rappresentazione delle ultime ore di vita di Cristo. Secondo il credo religioso, in questo giorno si dovrebbe seguire un rigoroso digiuno, che quasi mai viene rispettato; di solito si tende a magiare più leggero, preferibilmente a base di pesce. Ma, nel rispetto della doppia sacralità con cui si vivono queste giornate, il venerdì santo viene dedicato alla preparazione della Pastiera, momento delicato, che richiede pazienza e cura, quasi come recitare il rosario.

Il Sabato Santo c’è la benedizione dell’acqua e del fuoco. Ogni fedele prende acqua in una bottiglietta e un po’ di cenere in un fazzoletto ricamato. A tavola, arriva il momento più atteso, quanto la Resurrezione di Cristo, quello in cui si mangia il Casatiello; ore di preparazione e di attesa che culminano in un estatico momento di abbandono.

La Domenica di Pasqua, dopo la messa, rinfrancati nello spirito, col cuore carico di speranza, per la vita che rinasce, si torna a casa, per dedicarsi al più impegnativo tra i pasti delle feste. Si inizia solitamente con la fellata, salumi tipici napoletani che si mangiano come antipasto, insieme al casatiello e alle uova sode. Si prosegue con la minestra maritata di carne e verdure. La tradizione prevede poi i tagliolini al sugo o tortellini, un secondo piatto a base di agnello o capretto, immagine dell’innocenza e della purezza di Gesù, ma ancora una volta retaggio degli antichi riti sacrificali pagani. Cotto al forno con cipolle e patate, che con il loro profumo danno vero carattere alla festa di Pasqua, ha spesso come contorno carciofi fritti o arrostiti. Il pranzo termina con la Pastiera, indiscusso simbolo della tradizione gastronomica partenopea, un capolavoro di ricotta, germe di grano e buccia d’arancio.

Nel così labile confine tra le stratificazioni di cui Napoli è composta, nel dualismo tra il sacro e il profano, tra la rassegnazione e l’incrollabile fiducia, tra il lassismo e il saper godere dell’essenza della vita, questa città è un luogo sospeso tra l’antico e il nuovo, tra l’incanto e l’orrore, tra la spinta ad eccellere e la liquida sensazione di lasciarsi andare, tra Paradiso e Inferno, ma è proprio questo che rende unica la nostra città!

Emanuela Zincone