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Nel 2015 aveva stipulato un patto di sangue Tommaso Schisa, collaboratore di giustizia finito nel mirino del suo clan per essersi pentito: è lui stesso a riferirlo agli inquirenti, l’11 novembre 2019. La circostanza emerge dall’ordinanza con la quale oggi il gip di Napoli ha disposto 66 misure cautelari nei confronti di altrettanti indagati ritenuti appartenenti al clan De Luca Bossa, Casella, Minichini, Rinaldi e Reale. “…Io e Michele Minichini (destinatario oggi di una misura cautelare in carcere ed elemento di spicco dell’omonima famiglia malavitosa) abbiamo fatto un patto di sangue. I termini erano questi: se mi fossi pentito io, egli avrebbe ucciso mia sorella… se si fosse pentito lui, io gli avrei ucciso la sorella…”. Quando la notizia del “pentimento” iniziò a diffondersi la sua famiglia venne presa di mira dal clan per impedirgli di fare rivelazioni: la sua abitazione venne subito selvaggiamente razziata. Poi venne avvicinato in carcere da un altro detenuto, un “lavorante”, che gli aveva passato “l’imbasciata” (il messaggio) di ritrattare. Schisa finse di accettare ma poi rivelò tutto alla polizia penitenziaria. Ne seguirono una serie di azioni violente ai danni della sua famiglia. La moglie, la notte tra il 13 e 14 ottobre 2019, denunciò ai carabinieri di essere stata minacciata da un gruppo di donne parenti del marito (appartenenti al gruppo delle “pazzignane”) che l’accusavano di essere l’artefice del pentimento dell’uomo. Malgrado respingesse con forza l’affermazione, una delle donne replicò dicendo che “…ti meriti di finire in un pilastro di cemento” e poi “non preoccuparti, ci vediamo tutti domani mattina e ti ammazziamo”