Dopo oltre 22 anni, tra carcere e casa-lavoro, torna in libertà il boss Giuseppe Buonerba, reggente dell’ omonimo gruppo malavitoso detto dei ‘capelloni’, che a Napoli aveva la sua roccaforte in via Oronzo Costa, soprannominata “la strada della morte”.
La Corte di Assise di Appello partenopea (IV sezione) ha dichiarato cessata la sua pericolosità sociale e ordinato la liberazione.
Il boss è stato difeso dall’ avvocato Fabrizio de Maio, del foro di Lagonegro, e dal collega Mauro Zollo, che hanno ottenuto una riduzione di undici anni di reclusione e, nelle scorse ore, anche la revoca della casa da lavoro.
Giuseppe Buonerba è il marito di Emilia Sibillo (non è imparentata con il gruppo della cosiddetta ‘paranza dei bambini’), condannata in primo grado a trent’anni di reclusione in relazione all’omicidio di Salvatore D’Alpino, ras di piazza Mercato, ucciso dal gruppo Buonerba durante la guerra tra i ‘capelloni’ via Oronzio Costa e i Sibillo.
La stessa Corte ha escluso la premeditazione per Emilia Sibillo, anche lei difesa da de Maio e Zollo, condannandola a vent’anni di carcere: dalle conversazioni agli atti è emersa, sostengono i due legali, una scansione temporale incompatibile con la programmazione dell’ omicidio.
La Corte di Assise di Appello partenopea (IV sezione) ha dichiarato cessata la sua pericolosità sociale e ordinato la liberazione.
Il boss è stato difeso dall’ avvocato Fabrizio de Maio, del foro di Lagonegro, e dal collega Mauro Zollo, che hanno ottenuto una riduzione di undici anni di reclusione e, nelle scorse ore, anche la revoca della casa da lavoro.
Giuseppe Buonerba è il marito di Emilia Sibillo (non è imparentata con il gruppo della cosiddetta ‘paranza dei bambini’), condannata in primo grado a trent’anni di reclusione in relazione all’omicidio di Salvatore D’Alpino, ras di piazza Mercato, ucciso dal gruppo Buonerba durante la guerra tra i ‘capelloni’ via Oronzio Costa e i Sibillo.
La stessa Corte ha escluso la premeditazione per Emilia Sibillo, anche lei difesa da de Maio e Zollo, condannandola a vent’anni di carcere: dalle conversazioni agli atti è emersa, sostengono i due legali, una scansione temporale incompatibile con la programmazione dell’ omicidio.