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Napoli – “Una vita non può valere una condanna”. È questo lo slogan urlato delle mogli dei detenuti che hanno improvvisato una protesta fuori il carcere di Poggioreale. Incatenate tra di loro si tengono per mano e stringono delle catene formando una barriera umana per impedire la circolazione delle automobili.

“Sequestrati” negli autobus e nelle vetture, autisti e cittadini aspettano il permesso di passare. Accesso negato anche ai motorini, alle bici e ai driver. Qualcuno non si lascia intimidire e si avvicina alle donne: “Fatemi passare, devo andare a lavoro”. Ma irremovibili le donne non cedono, non si spostano quasi come se i loro piedi fossero cementati nell’asfalto.

“Vergogna”, urlano con tutto il fiato che hanno in petto. Urlano al cielo, agli agenti che, inermi, osservano la scena senza intervenire. Urlano per farsi ascoltare da chi, secondo loro, ha abbandonato i propri cari ad un ingiusto destino e gridano per farsi sentire dai mariti, figli, fratelli e padri che sono nella casa circondariale, al di là del labile confine.

Non hanno paura di nessuno, si trasmettono forza a vicenda e si vede nei loro occhi il fuoco del dissenso. L’obiettivo è creare disagio, attirare l’attenzione, provocare fastidio. Vogliono essere ascoltate. E nessuno osa interrompere la loro protesta.

“Davanti a queste donne non si può fare nulla. Preferirei avere cento uomini davanti piuttosto che dieci donne da dover fermare”, si lascia sfuggire un agente che girovaga tra le auto ferme e i cittadini innervositi.

Intanto dopo la brusca e improvvisa fermata, la corsa del bus 169, di passaggio proprio sul posto, è stata interrotta. “Fateci scendere, vogliamo continuare a piedi”, chiedono i pendolari. E il conducente prima di aprire le porte afferma: “Non voglio avere problemi, apro e vi faccio scendere ma poi chiudo le porte, mi sento più sicuro qui dentro”.