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di Ornella d’Anna

Immaginate di aspettare per ore l’autobus. Quando arriva, è così pieno che, pur spingendo, non riuscite a salire e rimanete a terra. Adesso pensate di ripetere questa stessa scena tante, tante volte, giorni e giorni. Terribile, vero? Eppure, questa è la realtà nella quale sono costretti a barcamenarsi i ricercatori a tempo indeterminato che affollano le Università del belpaese, che si destreggiano tra uno spintone e una gomitata per farsi largo verso la posizione che spetterebbe loro di diritto ma che, nei fatti, gli viene negata da quasi 10 anni.

Era il 2010 quando l’allora Ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, varò una riforma nella quale si stabiliva, tra l’altro, di eliminare gli RTI – ossia i ricercatori indeterminati, appunto – a favore di due nuove categorie, gli RTDA e gli RTDB, coloro che svolgevano attività a tempo determinato: i primi per i quali non era previsto un rinnovo allo scadere dei 3 anni, i secondi per i quali, invece, ci sarebbe stato un inserimento come professori associati (di seconda fascia) se in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale.

Passata la riforma, si è creato il paradosso. Sì, perché gli RTI, categoria che nei piani del Ministro sarebbe dovuta essere a esaurimento, sono invece sempre lì. Gli Atenei chiamano quelli a tempo determinato di tipo B, considerati i diversi piani straordinari provenienti dal Ministero per le assunzioni. Così i ricercatori, chiusi nel “limbo” dell’attesa, invecchiano accumulando esperienze, certificati e competenze che non sanno se riusciranno mai a far valere, tenuto conto che i fondi ad essi destinati dal Ministero non sono sufficienti.

La situazione, già difficile nel resto d’Italia, in Campania assume portata diversa perché, a differenza delle Università del Nord, quelle del Sud non godono di grandi finanziamenti provenienti dal mondo imprenditoriale: “Finalmente anche la Corte Costituzionale è stata investita della questione. Confidiamo nella loro pronuncia, ma soprattutto ci auguriamo si intervenga a livello legislativo” – spiega Roberta Mongillo, ricercatrice di Diritto Commerciale, membro del Senato accademico dell’Università degli Studi del Sannio e con un’idoneità da professore ordinario in tasca -. “Basterebbe davvero poco per superare questa disparità di trattamento, anche economicamente, visto che molti ricercatori ‘indeterminati’ hanno una notevole anzianità nel ruolo. Ci aspettiamo che lo svuotamento del ruolo sia reso possibile per coloro che hanno conseguito più di una abilitazione”.

In assenza di nuove norme che sistemino lo spinoso problema, l’attesa è tanta e chi lavora da tempo coltiva la speranza di vedere riconosciuta la propria fatica. Esiste “nella sostanza una conflittualità, tra chi legittimamente aspira ad entrare nel mondo universitario superando il precariato e chi legittimamente aspira al titolo di Professore avendone in astratto i requisiti” – sottolinea il rappresentante dei ricercatori in Senato accademico dell’Università degli Studi di Salerno, Francesco Buonomenna -. “Ci si augura che con l’imminente legge finanziaria, i validi tecnici del Ministero trovino le soluzioni più appropriate per risolvere una situazione che non ha ragione di sussistere, e che soltanto se risolta può offrire ulteriori occasioni di riflessioni normative per superare, anche il precariato universitario a beneficio dell’intero sistema”.