- Pubblicità -
Tempo di lettura: 3 minuti

Negli ultimi giorni sono prepotentemente tornati alla ribalta due personaggi storici per lungo tempo noti solo agli specialisti. Parliamo, ovviamente, di Ubertino da Casale e Jacopone da Todi.

La consueta conferenza di De Luca ha risvegliato l’attenzione, “dopo otto secoli”, su queste due grandi figure del nostro Medioevo. Jacopone e Ubertino furono grandi predicatori. Entrambi appartenevano alla cosiddetta corrente degli “spirituali”, ovvero di coloro che chiedevano una rigorosa applicazione della Regola Francescana.

Ma cosa predicavano Jacopone e Ubertino? Predicavano la verità! Nel caso specifico la verità cristiana. Spiegavano alle genti del tempo cosa era giusto e cosa non lo era; cosa era lecito fare e cosa non lo era. Siamo nel Medioevo e la cosa non ci sorprende. Nel XIII secolo era considerato normale pensare che vi fosse una “verità” alla quale tutti avessero il compito di uniformarsi e la libertà del singolo – di scegliere, pensare e agire – non è che fosse tenuta in gran conto.

Balziamo in avanti dei soliti “otto secoli” e arriviamo ai giorni nostri. Abbandonate le grandi questioni sul destino della nostra anima, imperversa la polemica – molto più terrena – sui cosiddetti “assistenti civici”. Volontari, secondo l’idea del ministro Boccia, che avrebbero il compito di “ricordare le regole” al fine di prevenire “comportamenti scorretti”. Predicatori laici, per riprendere la consapevole caricatura operata da De Luca, che ci ricordano ciò che è giusto e ciò che non lo è. Attivisti della “moral suasion”, direbbe ancora De Luca.

Ora, al netto della simpatica parodia di De Luca alla quale ci siamo voluti richiamare, il tema è oltremodo serio. In sostanza, fermo restando l’emergenza: fin dove si può spingere uno Stato a “regolamentare” la vita, gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone? Sulla liceità dei comportamenti decide la legge statuìta. Sulla “moralità” o la “giustezza” degli stessi lo Stato non può e non deve intervenire, in quanto viene chiamata in causa la responsabilità del singolo.

Se non si tiene a mente questo punto, il rischio è un pericoloso scivolamento verso concezioni che hanno come punto di riferimento non tanto lo Stato liberale, quanto – ci sia consentita un’espressione un po’ forte – uno Stato etico.

Lo Stato liberale si fonda sulla supremazia del diritto e della libertà dell’uomo mentre uno Stato etico si pone come decisore, arbitro e giudice assoluto del bene e del male, come fonte dell’etica per il singolo e per la collettività. Lo Stato non può decidere quali siano i comportamenti “eticamente edificanti”, né può pretendere di “educare” i propri cittadini.

“L’autonomia dell’individuo e il suo potere di scelta, la forza e la razionalità del diritto, la limitazione del potere e dei poteri, ed infine, l’abolizione di ogni forma di coercizione sono i punti di forza, le leve, di uno Stato liberale”. E anche di fronte all’imbecillità, dettata più che da uno Stato etico da uno stato etilico, non può ergersi il gran censore.