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di Fiorella Viola

Francesca, Marianna, Federica, Antonio, Domenico. Sono solo alcuni dei ‘ragazzi universitari’, studenti e giovani ricercatori (spesso non più giovani), che la sera servono ai tavoli dei pub e di giorno consegnano i volantini nelle cassette delle poste.

C’è chi apre birre in un locale del centro storico di Benevento, chi va in giro lungo il Rettifilo a Napoli col carrellino colmo di depliant con le offerte del Decò e chi ancora batte palmo a palmo il lungomare di Salerno durante la movida per piazzare i flyers delle discoteche di Pontecagnano.

Tutti guadagnano quelle poche centinaia di euro che servono a pagare affitto, bollette e a togliersi qualche sfizio che rimane confinato nel circuito cocktail, palestra, libri, computer e tecnologia varia. Gente che si violenta nel fare lavori che non rientrano certo nelle proprie inclinazioni caratteriali né in quelle professionali. Ma lo fa perché vuole studiare pur non avendo grandi mezzi economici a disposizione o perché insegue un sogno, quello della carriera universitaria.

Sono figli, fratelli, sorelle, fidanzati e amici di tutti noi. Delle loro storie ci riempiamo la bocca quando vogliamo portare un esempio di umiltà e forza di volontà. “Mio figlio la mattina studia e la sera lavora ed è un ricercatore. Farà carriera”.

Ma in realtà, molto più spesso, vostro figlio, il vostro fidanzato/a, il vostro amico, vostro fratello o vostra sorella sono vittime di uno dei peggiori sistemi di corruzione e ingiustizia che il nostro Paese abbia mai prodotto: le università. Si badi bene anche tra queste ce ne saranno sicuramente alcune che andrebbero salvate dal mucchio e portate come esempio per ricostruire il nostro Paese, ma si tratta sempre di mosche bianche, di eccezioni che confermano la regola.

Avete mai provato a chiedere ad un’università cosa bisogna fare per diventare ricercatore? La prima cosa che ti rispondono è che ti devi legare a un professore, nel senso che devi entrare nelle sue grazie e farti condurre così all’agognata meta. Ma te lo dicono come se fosse la cosa più ovvia del mondo. E come se tu, stupido, ignorassi una regola universale. Come se fossi incapace di disegnare una O pur avendo a disposizione un bicchiere e una matita ma pretendessi comunque di concorrere al Nobel per la Scienza. 

Ma questo è un discorso che poi viene archiviato. Perché chi è ricercatore è ormai entrato nel loop accettando ingiustizie, prevaricazioni e ingerenze. Ha investito talmente tanto nel suo sogno di diventare un prof (docente) universitario che ora farebbe anche passare avanti il figlio somaro del rettore di un’altra Università. Accetterebbe richieste inopportune e ingoierebbe merda a profusione.

E sì perché quando arrivi ad un passo dal sogno hai già:

–          conseguito una laurea specialistica o magistrale (quattro anni se tutto va bene);

 

–          conseguito un dottorato di ricerca (tre anni, se tutto va bene, e con una borsa di studio di 7mila euro annui se tutto va benissimo); 

 

–          svolto per un numero imprecisato di anni (se tutto va bene tre + due) il ruolo di ricercatore con un compenso che è inferiore a quello di un impiegato di segreteria della stessa università.

Circa quindici anni passati sui libri a farti un culo così mentre i compagni del tuo stesso corso di laurea si sono nel frattempo sposati, hanno messo su famiglia, hanno fatto sei anni di esperienza all’estero, hanno un’azienda che fattura centinaia di migliaia di euro vendendo ‘cazzate’ a un euro sul web.

E allora arrivi lì, ad un passo dal sogno, sei preparato, sai che quel concorso lo supererai e sarà il riscatto di una vita passata in biblioteca mentre gli altri si ubriacavano a Ibiza. Arrivi lì e che succede?

Succede che il prof cui hai portato la borsa per quindici anni ti chiede di non partecipare, di aspettare ancora un po’ perché c’è qualcuno che ha più bisogno di te di quel concorso: è il figlio/nipote/amico/ del rettore di un’altra università. E loro: i baroni delle università italiane che hanno rovinato il futuro di milioni di giovani brillanti menti hanno deciso che le cattedre in Italia si spartiscono come i colonizzatori fecero con l’Africa.

Una spartizione che è raccontata nel fascicolo dell’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Luca Turco e dal pm Paolo Berlucchi e che ha permesso di stabilire, al momento, che un candidato al concorso per l’Abilitazione Scientifica Nazionale all’insegnamento nel settore del “diritto tributario”,  era stato indotto a “ritirare” la propria domanda,  per favorire un terzo soggetto in possesso di un profilo curriculare notevolmente inferiore, in cambio allo studioso sarebbe stato promesso che gli indagati si sarebbero adoperati con la competente Commissione giudicatrice per la sua abilitazione in una successiva tornata.

Ulteriori approfondimenti hanno permesso di accertare che il sistema corruttivo è molto più esteso di questo singolo episodio: su tutta l’Italia le abilitazioni vengono assegnate, scrivono i finanzieri, “secondo logiche di spartizione territoriale e di reciproci scambi di favori, con valutazioni non basate su criteri meritocratici bensì orientate a soddisfare interessi personali, professionali o associativi”.

E allora, siamo sicuri che il problema sia solo di qualche procura italiana o della Guardia di Finanza? Non è per caso che il problema sia di tutti noi e dell’intero Paese che dovrebbe finalmente mettere mano al sistema universitario italiano? Siamo sicuro che non ci sia un metodo, un solo fottutissimo metodo per affermare la meritocrazia nel mondo accademico italiano?