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Marinella Senatore è un’artista e film-maker nata a Cava de’ Tirreni, in provincia di Salerno, conosciuta al grande pubblico soprattutto per le sue opere cosiddette corali.  Nei suoi lavori utilizza il video, la fotografia, il disegno, l’installazione ed il suono ma la particolarità della sua ricerca consiste nel fatto che il pubblico è coinvolto in prima persona in tutte le fasi di realizzazione dell’opera: dalla sceneggiatura alla scenografia, dalla recitazione alla regia. Dieci giorni fa la sua ultima performance collettiva ha avuto come protagonisti tantissimi bambini che, grazie al progetto Kids Creative Lab, nella splendida Piazza San Marco di Venezia hanno raccontato, attraverso il corpo e il movimento, le loro storie.

Raccontaci del  progetto Kids Creative Lab, la performance di Venezia e la valenza sociale e didattica che può avere un’opera/performance collettiva di questo genere per i bambini.

WE the KIDS è un progetto che con la Collezione Peggy Guggenheim e OVS abbiamo voluto rivolgere alle scuole (come tutti i precedenti progetti di Kids Creative LAB, nella cui scia si inserisce), ma è aperto alle famiglie e ai contesti sociali dei bambini, perché i miei progetti non sono mai ristretti a un’unica categoria. Per la performance collettiva finale abbiamo scelto piazza San Marco, un luogo iconico, dall’impatto immaginativo molto forte. Quello che desideravo per questa performance, come per tutte le altre, è basato sui desideri delle persone, sull’emancipazione dei partecipanti, sul loro empowerment. Questo avviene durante l’intero lavoro: dal momento in cui una persona sceglie di partecipare a un’azione corale di grande portata e di mettersi in gioco – spesso anche usando un linguaggio per la prima volta, come, in questo caso, la coreografia, arricchita dal porre in dinamica delle parole – accetta una sfida che la porta a lavorare su se stessa e sulle proprie aspirazioni e, in maniera più o meno consapevole, questo processo personale si estende, all’ambiente familiare e al background del partecipante. Quello che succede durante la performance è la celebrazione di tutti questi risultati, è il grande momento di sentirsi sicuri e a proprio agio nel fare qualcosa, di portare a termine ciò che si è iniziato. La performance finale è importante quanto il processo che la precede, che termina solo quando si esegue la final restitution.

La performance è stata emozionante, a tratti commovente e, anche se avevamo previsto tutto fin dei dettagli, è riuscita a sorprenderci e andare ben oltre le nostre aspettative, l’entusiasmo era palpabile. La serietà e la concentrazione con cui i bambini si sono presentati in piazza San Marco e, attraverso il corpo e il movimento, hanno raccontato le loro storie – anche di inclusione e di costruzione di comunità, benché temporanee – sono state a dir poco avvincenti. Io stessa, a un certo punto, ho desiderato ballare con loro perché eravamo un corpo unico: è la magia che riesce a creare la danza anche quando è fatta da amateur, da non professionisti, perché il corpo è un veicolo potentissimo di comunicazione. Ha preso vita uno sforzo collettivo incredibile, che costruisce legami. La soddisfazione, l’estrema emancipazione e l’orgoglio dei partecipanti sono stati straordinari.

Come è nata la tua passione per l’arte partecipata, di relazione, di comunità?

Credo che individuare negli esseri umani la materia prima di un intervento artistico non sia esattamente congeniale a quello che si intende come arte partecipativa o socially engaged, perché sostituire una materia con un’altra prevede comunque un ruolo dominante e implica un mero utilizzo da parte dell’artista, e trattandosi di persone può essere pericoloso e fuorviante. Nei progetti partecipativi e corali che mi interessano i linguaggi credo siano la vera materia prima.

Se la tua arte è al 100% inclusiva, partecipativa e che tende alla rieducazione collettiva, quanto lo sono invece, oggi, la società in generale e in particolare l’istituzione scolastiche.

Credo di essere una persona molto espansiva o quantomeno una persona che ha bisogno di condividere la propria energia. Non mancano i momenti in cui ho bisogno anch’io di fare un percorso più solitario, anzi direi che capita sempre dopo un’esperienza di tipo collettivo. A volte riesco a lavorare con migliaia di persone cercando di costruire nei mesi una reale vicinanza o quantomeno uno scambio ed è quasi un’urgenza poi aver bisogno di rientrare in una propria intimità. In questa fase lavoro molto per esempio col disegno, che è quasi terapeutico perché mi aiuta a elaborare una quantità infinita di cose, o mi capita di scrivere. Dunque credo che in realtà la ricerca dell’isolamento e la necessità della socializzazione dell’esperimento creativo collettivo siano facce della stessa medaglia. 

Tutte queste sono le esperienze, come dicevo prima, che hanno come scopo ultimo la felicità degli individui che le compiono. E la felicità è contagiosa, esattamente come lo sono l’infelicità e la sofferenza. Cambiano gli esiti su di noi e su quelli che ci stanno vicino. L’arte quindi assolve al compito di svelare quanto sia bello e gratificante rivolgere la nostra attenzione agli altri, senza secondi fini. In realtà il mondo dell’arte non è affatto così empatico, è al contrario formale, gerarchico, regolato da un codice di comportamento non scritto. Per fortuna, però, l’arte non esaurisce la sua forza vitale nel sistema commerciale. I migliori artisti e i migliori critici e curatori indicano altre strade, quelle in cui la bellezza dell’arte coincide con un compito educativo. Basta pensare a Joseph Beuys, a Gina Pane e a tanti altri maestri.