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Salerno – Preceduto da un’aura leggendaria – cominciata già con la sua prima messa in scena, avvenuta circa quarant’anni or sono, nell’ormai lontano marzo del 1984 – venerdì 10 e sabato 11 gennaio 2020 al Teatro Ghirelli arriva Festa al celeste e nubile Santuario di Enzo Moscato (che per la seconda volta in pochi mesi, dopo “Modo minore” l’anteprima di stagione dello scorso ottobre, torna davanti al pubblico di Salerno).

In un vicolo di Napoli, che potrebbe tranquillamente essere all’incrocio con i luoghi di Scannasurice e di Trianon, lavori precedenti del drammaturgo napoletano, un basso ospita tre sorelle nubili che vivono un’esistenza grigia, monotona e squallida, riscattata dal culto ossessivo e condiviso per la Vergine Immacolata che determina una rigidissima condotta etico-sessuale.

I rapporti tra le tre sorelle sono gerarchici. Il comando assoluto spetta di diritto alla primogenita Elisabetta, “la nazista” (Lalla Esposito), che custodisce la virtù delle sorelle e pretende obbedienza incondizionata ai dogmi e ai ministri della Chiesa. La secondogenita Annina, “la visionaria” (Cristina Donadio), è convinta di vedere e di parlare con lo Spirito Santo, di ricevere messaggi dalla Madonna e di ascoltare una voce che profetizza un Sacro Evento che sta per compiersi sotto i loro occhi, tra le miserabili mura del loro basso, in mezzo a prosaici detersivi, caramelle, forcine per capelli. La terzogenita Maria, “la muta” (Anita Mosca), non parla ed è totalmente priva di potere ma è l’enigmatico oggetto del miracolo, della imperscrutabile scelta divina.

In questa atmosfera così scarnificata e piamente devota accade che le fantasie, le reiterate filippiche di Annina incomincino a concretizzarsi, a incidere sensibilmente sul quotidiano, a trasformarlo, poco per volta in presenza dell’eccezionale, in una inusitata esperienza che non può non travolgere i consueti canoni esistenziali delle tre sorelle. Così simbolicamente Elisabetta perde gli occhi, indispensabile mezzo del suo controllo; così Maria la passiva, si trasfigura, nell’epifania della Vergine Incontaminata, fino a ritrovare la voce, per un epilogo chiarificatore attraverso cui, come accade solo nei soggetti e delle drammaturgie più riuscite, ogni tassello troverà il proprio posto.

Moscato conferma ancora una volta di riuscire a muoversi abilmente fra grottesco, farsa e tragedia, presentando personaggi solo apparentemente assurdi ma che, a ben guardare, fanno parte dell’iconografia delle strade e dei quartieri partenopei. E insieme all’immagine di Napoli, c’è la lingua: pastosa, esplosiva, musicale, squisitamente teatrale, assolutamente indimenticabile.