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Cade oggi l’anniversario di un evento che ha segnato la storia della Repubblica Italiana.

Quarant’anni fa, il 16 marzo del 1978, in via Fani, a Roma, alle 9.02, un commando delle Brigate Rosse rapiva Aldo Moro, presidente della Dc, e assassinava i cinque uomini della sua scorta: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino

L’evento iniziale di un dramma terminato cinquantacinque giorni dopo, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, dietro via delle Botteghe Oscure, dove aveva sede il Partito Comunista Italiana, e poco distante da piazza del Gesù, quartier generale della Democrazia Cristiana. In un angolo, con la testa poggiata sulla ruota di scorta, il corpo senza vita di Aldo Moro.

Nella città capitolina, a vivere quella tragedia, c’era Clemente Mastella, poco più che trentenne e alla prima esperienza da deputato. Con lui, proviamo a ricostruire il clima di quei giorni.

Sindaco, quali ricordi conserva delle ore del rapimento?

Il primo ricordo è che fui io ad avvertire De Mita del rapimento e dell’eccidio della scorta. Ci incontrammo subito dopo alla Camera dei Deputati, assolutamente stupefatti e increduli per ciò che era accaduto. Quel giorno dovevamo votare la fiducia al governo Andreotti, la nascita del governo di solidarietà nazionale

E lei come apprese la notizia?

“Dalla voce di Gustavo Selva, ascoltando il Gr2”.

La lettura dei giorni del sequestro presenta ancora oggi troppe ombre e poche certezze. Anche lei fu avvicinato per dare impulso a una possibile trattativa coi brigatisti.

“Fui chiamato assieme ad altri dalla famiglia per attivare una forma di trattativa con i brigatisti. Ma la Dc fu risoluta nel dire di no. Nessun margine. Neanche per avviare una sorta di mediazione in relazione alla vicenda umana, prima che politica, di Moro”.

Vinse la ragion di Stato.

“Sì, è così. Muoia uno per salvarne tanti: questa la concezione un po’ biblica, un po’ drammatica, che prevalse”.

E lei, da giovane deputato, come visse quella vicenda?

“Con dubbi e perplessità. Quella situazione scosse le coscienze di ciascuno di noi. Ancora oggi non riesco a chiedermi ‘cosa potessi fare io’. La vicenda di Moro mi portò successivamente anche a non votare Sandro Pertini come Presidente della Repubblica”.

Per quali ragioni?

“Non mi piacquero alcune sue parole durante la prigionia di Moro relative al poco coraggio di ‘questi cattolici’. Non lo votai e lo dichiarai pubblicamente. Lo scrissi anche nel ‘Diario di un grande elettore’ su Panorama, articolo pubblicato in prima pagina per due edizioni. Le ragioni morali del mio no a Pertini”.

Pochi mesi prima del rapimento, il discorso di Benevento e l’apertura di Moro al Partito Comunista. Il compromesso storico. Ma l’abbraccio tra Dc e Pci non piaceva né agli Stati Uniti né all’Unione Sovietica. E anche lei, in passato, ha fatto riferimento al ruolo delle due superpotenze dell’epoca nella vicenda Moro. In che termini?

Guardi, su questo punto presentai una interrogazione parlamentare alla quale non fu mai data risposta. Tramite un amico, però, mi chiese informazioni l’ambasciatore cinese, ricordiamo che in quei tempi la Cina era in contrasto con l’Unione Sovietica. Spiegai che dietro quel che stava accadendo probabilmente c’era una tacita intesa tra Usa e Urss perché con il progetto di Moro  – il patto Dc -Pci – saltava, di fatto, il blocco imposto dalla conferenza di Jalta. Il mio riferimento non era a una partecipazione diretta dei servizi segreti americani o sovietici ma a una certa ‘simpatia’ di Cia e Kgb riguardo a cosa potesse avvenire con l’eliminazione di Moro e cioè la fine del governo di solidarietà nazionale. E infatti per un certo periodo di tempo non se ne è più parlato. Che poi, a dirla tutta, Moro non immaginava la costante gestione del potere in forma comune da parte di Dc e Pci ma prospettava l’avvio di una fase transitoria di coabitazione al governo delle due maggiori forze politiche del Paese”.

In questi giorni si è discusso molto del protagonismo mediatico riconosciuto ai brigatisti autori del rapimento e dell’assassinio di Moro. Cosa ne pensa?

“Comprendo la stampa perché gli unici che possono dire qualcosa in più rispetto a quanto successo all’epoca sono proprio i brigatisti. Piuttosto, voglio ricordare gli uomini della scorta di Moro, troppo spesso dimenticati. Quando si parla di scorte, oggi, si guarda alle persone che accompagnano politici e rappresentanti istituzionali come a dei semi-privilegiati.  Ma dopo tragedie come quella di via Fani vengono presto dimenticati. Un aneddoto che non avevo ancora raccontato. La signora Leonardi, che ho ospitato a Ceppaloni prima per un convegno e poi a casa, aveva bisogno di un prestito da parte di una banca e venne da me. E io intervenni rispetto al Banco di Napoli perché concedesse questo piccolo prestito. Mi risposero che occorreva una fidejussione. Chiamai il direttore generale del Banco e gli dissi: ma come? Il marito di questa poveretta è morto per noi, per tutti noi, e le chiediamo pure la garanzia? Alla fine, avallai io la richiesta della signora”.

Alcuni giorni fa, in un’altra intervista, sottolineava con rammarico che buona parte delle giovani generazioni non conosce vicende e protagonisti della storia italiana del novecento. Come si recupera questo dato?

“Chiunque di noi è stato testimone di quelle vicende ha il dovere di raccontarle e spiegarle a figli, nipoti e quanti altri. E così anche scuola e università. La memoria non è retorica. Serve a edificare il presente e custodire l’avvenire”.