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Benevento – “E’ colpa mia, sono io che gli chiedo di giocare così”. In questa frase breve, spiccicata con tono avvilito, si può trovare tanto di Cristian Bucchi, ormai a un passo dalla panchina del Benevento. L’incontro pomeridiano con il presidente Oreste Vigorito è andato a buon fine, restano da limare i dettagli della rescissione con il Sassuolo, club a cui il trainer è legato ancora contrattualmente. Una volta ufficializzata quella separazione, di intoppi non dovrebbero essercene più e l’avventura sannita potrebbe avere finalmente inizio.

Tornando alla frase in questione, Bucchi la pronunciò proprio a Benevento, quando nell’aria al Ciro Vigorito l’adrenalina si mischiava all’ossigeno e i clacson delle automobili facevano da sfondo a una notte di festa. E’ passato un anno esatto da allora, da quando la Strega batté il Perugia con un gol di Chibsah nell’andata di una semifinale play off diventata subito storica. E sulla panchina di quel Perugia, per l’appunto, c’era proprio Cristian Bucchi.

Le sue parole avevano l’obiettivo di scagionare Gnahoré, centrocampista finito sul banco degli imputati dopo l’errore commesso in occasione del gol decisivo di Chibsah. Colpevole, Gnahorè, di aver giocato male il pallone più pesante della partita. “Chiedo ai giocatori di giocare sempre la palla, di costruire l’azione. Sono cose che dopo un anno di lavoro vengono automatiche“, proseguì Bucchi che in quel frangente – facendo finta che non fosse successo nulla – si assunse tutte le responsabilità del caso. I suoi avevano rispettato un dettame preciso, avevano provato a costruire l’azione da dietro senza speculare su errori altrui. Un’indicazione che con ogni probabilità si ripeterà anche nella sua nuova esperienza nel Sannio. 

Il Benevento attuale, d’altra parte, può rappresentare la sfida perfetta per il tecnico romano. La squadra si presenta come un cantiere aperto, pronto a ricevere gli accorgimenti del caso. Il palazzo verrà tirato su tenendo conto di un modulo a lui particolarmente caro, quel 4-3-3 che appare il più adatto sia al campionato che si andrà ad affrontare che all’idea di un calcio offensivo. A Perugia le indicazioni erano semplici e concise, con particolare predilezione per il gioco sulle fasce, opzione sfruttata grazie a terzini di gamba molto abili nel proporsi in zona offensiva. Di Chiara con lui fu in grado di servire 8 assist, non solo all’indirizzo della punta centrale Di Carmine ma anche verso gli esterni d’attacco e uno dei tre centrocampisti dediti all’inserimento dalle retrovie. Quell’anno il più avvezzo a questo tipo di soluzione si rivelò Dezi, ma sempre sulla base di un discorso che prevedeva un interscambio costante della posizione di ciascuno dei tre mediani, imprevedibili ed efficaci nell’ottica di un’armonia e di un equilibrio che per larghi tratti del torneo furono incensati dagli addetti ai lavori. 

Non è un caso che Squinzi, l’estate scorsa, pensò proprio a lui per rifondare il Sassuolo. L’eredità da raccogliere all’epoca fu quella di Eusebio Di Francesco, uno che in neroverde aveva appena finito di scrivere pagine di storia indelebili. Gli emiliani avevano visto in Bucchi il profilo ideale sia dal punto di vista della capacità di cambiare assetto a gara in corso (frequenti i passaggi alla difesa a tre con l’arretramento di uno dei terzini) che della capacità di variare atteggiamento e uomini in relazione all’avversario, un particolare che in serie A – e questo il Benevento lo ha provato spesso sulla propria pelle – può fare la differenza più di ogni altra cosa. Più che un esperimento fallito, il “viaggio” a Sassuolo può dunque definirsi un’occasione non sfruttata. Nel Sannio Bucchi può costruirsene un’altra partendo da idee che per molti aspetti non si differenziano poi tanto da quelle di De Zerbi. Se funzioneranno lo dirà solo il tempo.