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“Quando vedo due-tre guardie che si avvicinano alla mia cella, ancora oggi mi blocco per la paura: dal giorno dei pestaggi, per le tante botte prese, non riesco più a fare la pipì in piedi”.

Sono le parole del teste Vincenzo Baia, parte civile nel maxi-processo per le violenze commesse ai danni dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020, che vede 105 imputati tra poliziotti penitenziari, funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e medici dell’Asl di Caserta.

Baia, tuttora detenuto per una violenta rapina commessa alcuni anni fa a Quarto nel corso della quale un 68enne rimase ferito da un colpo di pistola, è costretto a fermarsi durante l’esame mentre viene sentito dai pm Alessandro Milita, Daniela Pannone e Alessandra Pinto; troppo forte lo choc per quanto vissuto quel 6 aprile di quasi quattro anni fa.

L’udienza riprende dopo alcuni minuti; Baia è tra i 14 detenuti che il sei aprile, dopo i pestaggi, furono posti in isolamento perché ritenuti i promotori della protesta del giorno prima, che secondo i vertici campani del Dap aveva provocato la perquisizione del sei aprile poi divenuta “mattanza” (così l’ha definita il giudice per le indagini preliminari di Santa Maria Capua Vetere).

Il testimone dice anche di riconoscere l’agente Stanislao Fusco, imputato, come colui che lo picchiò violentemente all’ufficio matricola del carcere. “Me ne diede tante e mi strappò la barba, poi quando con altri 7-8 agenti vennero nella mia cella, lui si tenne in disparte perché sapeva ciò che aveva fatto”; il difensore di Fusco, Angelo Raucci, gli contesta che dopo i fatti “lei ha raccontato che la barba le fu strappata nel corridoio da un altro agente, non all’ufficio matricola”.

“La barba mi è stata strappata più volte, e sempre dallo stesso agente” si corregge Baia, che poi racconta: “Al piano terra del reparto Nilo mi trovai di fronte un marea di agenti, e ne presi tante, e da uno un particolare – riconosciuto nell’imputato Giacomo Golluccio – un calcio allo stomaco”; il teste spiega anche che “solo un agente mi ha aiutato, ovvero quello che che mi accompagnò alla cella di isolamento nel reparto Danubio”; in aula il teste indica l’imputato Michele Vinciguerra, e il pm Milita gli fa notare che “dopo i fatti, quando fu sentito, lei indicò l’agente Angelo Bruno, che è completamente diverso dell’imputato indicato oggi”.

“Allora mi sarò sbagliato” risponde Baia, “ma chi mi ha salvato è solo il poliziotto indicato oggi”. Il teste, che fatica a vedere i video della violenze – “fa male vedere certe cose” – dice – disconosce inoltre che sia sua la firma apposta sulla relazione disciplinare in cui veniva spiegato che era finito in isolamento al Danubio per le proteste del 5 aprile, quando lui e altri detenuti del Reparto Nilo del carcere sammaritano erano scesi in agitazione dopo che si era diffusa la notizia della positività al Covid di un recluso. Il pm Milita fa notare che anche il teste D’Alessio (altra vittima dei pestaggi costituitasi parte civile) “la settimana scorsa ha disconosciuto la sua firma sulla relazione disciplinare”.