- Pubblicità -
Tempo di lettura: 2 minuti

Napoli – È stato il giorno della polizia Scientifica, ma oramai è conto alla rovescia per la sentenza di primo grado che dovrebbe uscire entro la fine dell’anno. Il “giallo” Chiaia sta volgendo al termine. Sul coltello da sub sporco di sangue ritrovato in una discarica a cielo aperto, la polizia Scientifica di Napoli ha trovato tracce di Dna sia di Luca che di Vittorio Materazzo, entrambi fratelli, il primo imputato per l’omicidio del secondo. È quanto ha dichiarato Fabiola Mancone, ex capo della Scientifica, che per prima si è occupata dei rilievi sulla scena dell’omicidio dell’ingegnere napoletano trucidato con numerose coltellate il 28 novembre del 2016 sotto casa. Tracce di Dna, sia di Vittorio che di Luca sono stati trovati, come ha riferito la dottoressa Elena Improta, anche su molti altri reperti, come il casco di cui l’imputato aveva denunciato il furto e, come i vestiti, trovati in alcune buste in un vicolo vicino al luogo del delitto. «Io accompagnai Luca da un avvocato e lui disse che era meglio andarsene”, questa una parte della testimonianza invece di Valentina Guglielmini, amica di vecchia data di Luca, la quale ha raccontato di aver incontrato il giovane pochi giorni dopo la morte del fratello e di avergli consigliato un avvocato. I primi di dicembre, tra il 3 e il 10, Luca Materazzo ha anche vissuto a casa dei genitori di Valentina, dalla quale è poi andato via la mattina di domenica 10 dicembre, da quando cioè si sono perse le sue tracce per poi essere arrestato a Siviglia il 2 gennaio del 2018. “Mi chiese se potevo dargli il mio passaporto. Gli ho risposto ‘ma cosa te ne fai, io i capelli lunghi, sono piccolina. Mi disse scherzando che si sarebbe messo la parrucca”. Poi al termine dell’udienza Luca ha preso la parola. “Voglio dire che io non sono il mostro di Firenze. Quell’avvocato non mi ha invitato alla fuga, mi disse che l’esito processuale non dipendeva dalla mia presenza e io non mi sentivo al sicuro. Non volevo mettere in pericolo i miei amici, per questo sono andato via“. Aveva la febbre, lo ha detto al presidente della Corte e ha dichiarato di non sentirsi al sicuro neanche in carcere: “Nel mio padiglione il 70 per cento delle persone hanno malattie che possono essere contagiose“.