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Napoli – Una storia di oscura drammaticità che, se pure innestata in uno spaccato dichiaratamente popolare di quella Napoli di metà Ottocento tanto presente alla tradizione produttiva di Francesco Mastriani, pure sembra contenere al suo interno molti degli elementi della grande tragedia, consoni a giustificare già nella titolazione il riferimento alla più complessa figura della Medea di tradizione classica.

Da questa suggestione, con richiamo di sconfinamento in qualche modo naturale, nasce il progetto di messinscena dell’autrice-regista. La trama di Mastriani rimesta negli elementi di un “popolare napoletano” trattato con sapiente mestiere: Coletta Esposito – è questo il nome della sventurata eroina – conduce infanzia e adolescenza fra le mura dell’orfanatrofio dell’Annunziata, e lì alleva nell’animo quella straziante fame d’amore il cui soddisfacimento, con passione tirannica affida a Cipriano Barca, l’amante dalla cui relazione nasce una bambina. Cipriano non rivela un’immediata disposizione verso la donna, ma la manipolazione di lei è di tale violenza da non consentire scampo, tanto che lui aderisce alla promessa di sposarla, se pure quell’attrazione che per breve tempo aveva tenuto insieme il rapporto va tanto affievolendosi da aprirgli la strada a nuovi incontri. Il matrimonio con Coletta non si compie; la relazione con la giovane Teresina diviene evento irrinunciabile. Coletta è piagata, furente, accecata dall’odio, spietata; cova la più feroce delle vendette, e nel giorno delle di lui nozze con la nuova innamorata – di più “normale” provenienza sociale – toglie la vita alla piccola figlia, e nella chiesa proprio sull’altare porta il cadaverino della bimba alla vista del padre, uccidendo al tempo stesso la rivale secondo quella promessa di morte più volte evocata. L’atmosfera generale della messinscena, deprivata di ogni tentazione naturalistica, assume piuttosto l’atmosfera di un “noir” .

Si rappresenta con evidenza la figura della donna affetta dal morbo dell’abbandono, la cui implacabile voracità d’amore nessun evento affettivo riesce a compensare nella mancanza, neanche la tanto ricercata corrispondenza sentimentale dell’amante -avvelenata dall’ossessione del possesso-, né la nascita della propria creatura; esclusa dal ruolo di figlia, non possiede il modello su cui innestare e plasmare gli atteggiamenti emotivi e affettivi della maternità. In effetti Coletta non sa amare altri che sé stessa nella proiezione di un’insana morbosa cannibalica idea di passione, auto-generata nell’insediarsi e protrarsi di quel mal di vivere che è frutto della sterilità sentimentale cui fu abbandonata fin dall’infanzia.  Né le è d’aiuto il ruolo espresso dall’oscura benefattrice – Cesarina Molisi, senza dubbio la “madre” che nel tempo innanzi spinse la bimba sulla ruota – alla quale convenzione e opportunità di facciata impediscono fino alla fine di dichiararsi nella vera natura della relazione.

  1. Come in Euripide, la narrazione di Mastriani usa straordinaria acutezza a penetrare nel labirinto delle emozioni e delle angosce della protagonista, e delle forze oscure da quel velenoso groviglio generate e alimentate, ma quel conflitto fra razionale e irrazionale, fra etica e politica che è tra i tratti distintivi della Medea euripidea, e che costituiscono la dorsale del pathos drammatico di quell’evento, non trovano luogo. In Coletta nessun tentennamento interviene nella spinta verso un definitivo rituale di sangue, che è anzi inequivocabilmente cercato e compiuto in tutta lucidità. Nemmeno un tremore, un accenno di pietà, un estremo fremito d’emozione; alla coscienza di Coletta, figlia negata e bambina malamente allevata, mancano le coordinate per una humanitas di classica memoria. L’incipit è datato 1792. Fa da sfondo un piccolo popolo, ritratto in sedicesimi di una società sofferente e sconnessa; qualche cenno alla presenza francese; gli eventi rivoluzionari di fine secolo (Rivoluzione Partenopea)  non sono lontani, se ne coglie qualche accenno, appena qualche accenno lasciato qua e là.