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Avellino  –   Riceviamo e pubblichiamo, da Sabino Morano di Primavera Irpinia. “Volendomi riallacciare all’appassionante questione aperta dal direttore Marco Demarco sulle colonne del Corriere del Mezzogiorno, intorno alle sorti della destra Partenopea, volevo rassegnare alcune considerazioni, dal punto di vista di chi ha assistito con attenzione a dette vicende, da “provinciale”, ovvero da quel osservatorio non cittadino, che appartiene a chi pur frequentando abitualmente la città, resta irrimediabilmente (parafrasando Armando Gill) Cafone ‘e fore.
Sinceramente non credo che la mancanza di una proposta politica della destra cittadina possa ascriversi a quello che il direttore Demarco definisce il “lungo commissariamento”, a quella condizione cioè, che ha visto i ruoli dirigenziali delle organizzazioni politiche del centrodestra affidate, dal concludersi dell’esperienza di Antonio Martusciello in poi, alla direzione di quadri provenienti da aree extra cittadine.

Napoli, come tutte le grandi città che furono capitali, è innanzi tutto un simbolo, non è un paese nel quale alla figura del sindaco si richiede residenza e possibilmente discendenza locale. Ne Orazio ne Ovidio, ne Seneca ne Marziale furono romani di nascita, questo non impedì loro di eternizzarsi, immortali simboli la cultura latina, potremmo facilmente affermare classicheggiando. Ne tale circostanza si è rivelata, nella storia recente, un problema per la parte politica concorrente, quella sinistra napoletana che ha trovato in Maurizio Valenzi, tunisino di origini livornesi e nell’orgogliosamente Afragolese Antonio Bassolino i suoi uomini simbolo.

Sicuramente invece, il vero grande limite della destra napoletana, risiede nella sua incapacità di riabilitare la propria storia, martirizzata e sommersa da anni di narrazioni distorte. Quella storia di una destra che oggi si direbbe “di governo” che vide nel decennio laurino la grande ricostruzione post bellica, la nascita del festival di Napoli, l’egemonia napoletana nel mondo dello spettacolo, dai grandi attori alle case di produzione. Uno splendore che la Città non rivivrà mai nei decenni a venire.

Negli anni successivi però, come opportunamente osserva Alessandro Sansoni, sempre nell’ambito della discussione a distanza sulle colonne del Corriere del Mezzogiorno, verrà posta in essere una narrazione anti laurina che “resta ancor oggi uno degli esperimenti meglio riusciti costruzione dell’egemonia in senso gramsciano da parte del Pci”, una formidabile “guerra delle parole”, che è riuscita a costruire artatamente un immaginario collettivo nel quale al nome di Achille Lauro corrispondono pacchi di pasta, soldi tagliati, scarpe “spaiate” consegnate agli elettori prima del voto, ed ancora speculazioni edilizie ed ogni sorta di ruberie. Una macchina formidabile creatrice di mostri, ha creato una verità interessata.

La vera vicenda di quello che verrà definito come il “Sacco di Napoli” si consumerà negli anni successivi quelli delle giunte democristiane che seguirono al disarcionamento del “comandante” Lauro ad opera di quelli Alberto Giovannini, all’epoca in un editoriale infuocato sul Roma definì “i sette puttani”. Ma la “storia ufficiale” butterà comunque l’onta del vergognoso fardello sulle spalle di “don Achille”.

La grande colpa storica della destra, e non solo di quella napoletana, è stata, negli anni specie durante le proprie esperienze di governo, quella di non capire la necessità di costruire un proprio “fronte intellettuale” che potesse fare argine alle strumentali distorsioni delle realtà storiche, messe in atto dall’infallibile “macchina da propaganda” costruita allo scopo dalla sinistra.
E tale è stata pesante e definitiva, la sconfitta della destra cittadina nella guerra delle parole rispetto all’epoca laurina, che gli stessi suoi esponenti hanno applicato a quel determinato periodo storico una sorta di abolitio memoriae, preferendo individuare, ad esempio, come momento simbolo della storia della propria parte politica in Città, la fortunata esperienza della battaglia elettorale del ’79 per Almirante Sindaco.

In questo tipo di scelta simbolica, c’è tutto il limite di una destra che per la pigrizia o forse per incapacità di andare “veramente” contro corrente, sceglie,( enfatizzando una parte della propria storia e prendendo tacitamente le distanze un’altra), di intraprendere la strada più comoda della “vulgata“ imposta dalle sinistre.
In questa dicotomia tra “rispettata” posizione da oppositori e vituperata posizione di governo, risiede a mio avviso, (forse in maniera inconsapevole), il limite di una destra che non riesce a vincere la propria vocazione minoritaria. Quella destra che anche se non se ne è mai resa conto, si è fatta convincere dalla “guerra di parole” posta in campo dalla sinistra intellettuale, quella destra che per questo motivo è alla continua ricerca di una sorta di legittimazione da parte dell’avversario, per cui anche quando governa subisce una specie di sudditanza psicologica.

La parte più “centrista” della coalizione invece, sulla Città, a differenza della destra, non ha periodi storici a cui poter fare riferimento, in quanto proviene dalle esperienze più disparate, come del resto anche in altre città italiane, ma a differenza del dato politico, che le concede abitualmente generosi consensi, grazie al leaderismo magnetico berlusconiano che avrà sempre una particolare sintonia con la pancia della Città, a livello amministrativo non è mai stata capace di esprimere una leadership in grado di parlare ai ceti produttivi, alla borghesia, al popolo delle partite ive napoletane di quella “rivoluzione liberale” che in versione amministrativa, avrebbe potuto essere un volano di rilancio possibile.

Se il centro destra non saprà, munirsi di un “fronte intellettuale”, capace di ricostruirne un’identità trasformare le variegate quanto molteplici istanze provenienti dalle proprie file e dai propri corpi sociali di riferimento, in un’idea sistemica che tende a diventare corrente di pensiero, anche quando vince, ci sarà da sinistra chi gli dirà in che modo è opportuno essere di destra.
Credo che l’unica speranza per il centrodestra napoletano, e più in generale per la Città di Napoli, debba necessariamente nascere da un laboratorio di tipo prepolitico, una “fucina conservatrice” che abbia una sua idea strategica della Città inserita in uno scenario geopolitico, che vada oltre il “sindacismo” spicciolo, che ha caratterizzato le proposte di questi ultimi anni”.