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“Basta baby boss di camorra, anche maggiorenni, nelle normali carceri minorili. La loro presenza mette rischio la rieducazione degli altri detenuti che hanno commesso reati ordinari”. È quanto denuncia il segretario regionale dell’Unione Sindacale di Polizia Penitenziaria Ciro Auricchio intervenendo sulla norma della Riforma Orlando che ha esteso la detenzione nelle carceri minorili fino al 25esimo anno di età per coloro che abbiano commesso reati, sia pur di matrice mafiosa, quando erano minorenni. È il caso per esempio dei due giovani – di 16 e 24 anni – responsabili dell’efferato omicidio di Afragola, dove le due vittime sono state fatte a pezzetti; per loro, come per tanti giovani boss dei quartieri napoletani, si aprono le porte degli istituti minorili, come quelli di Nisida (Napoli) e Airola (Benevento), dove però invece di rieducarsi, provano a trasmettere le violente dinamiche apprese in strada; sono così aumentate le aggressioni nelle carceri minorili e il personale è “terrorizzato” da questi ragazzi e dalle loro famiglie.

Auricchio spiega che le “notizie che giungono dagli istituti minorili sulla leadership negativa che tali detenuti provano ad esercitare sul gruppo dei compagni di detenzione sono allarmanti, con effetti destabilizzanti sia per l’ordine e la sicurezza interni, sia per la rieducazione ed il trattamento stesso”. “Nelle carceri campane, e ci risulta in alcuni casi persino nel  circuito penale esterno, numerosi sono i giovani detenuti, di origine campana, alcuni di essi ancora minorenni,  autori di reati, anche gravi come l’omicidio, facenti capo ai diversi clan protagonisti delle diverse faide che imperversano nella città di Napoli e provincia. Urgono soluzioni urgenti: chiediamo al Ministro Orlando di riconoscere che se si va avanti così, per lo Stato è  una sconfitta, e chiediamo di considerare la possibilità di inviare questi giovani detenuti in circuiti di massima sicurezza o in istituti ad hoc fuori distretto, abbattendo così i rischi di contaminazione del territorio esterno e da parte delle stesse famiglie affiliate ai clan, e per creare i presupposti per tentare un approccio autentico alla rieducazione e al trattamento” conclude il sindacalista.