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di Nunzia Campanelli

Le terribili immagini trasmesse nei giorni scorsi in televisione  – la lunga fila di carri militari che trasportavano le salme fuori da Bergamo, dove ormai non c’è più posto per la sepoltura – hanno profondamente colpito tutti noi. Ci impressionano perché ci costringono a mettere in discussione quelle che credevamo, fino a un respiro fa, certezze incrollabili. Quelle immagini sono testimonianza di un’involuzione della società in questo momento drammatico: l’oltraggio del culto dei morti è negazione dell’amore, che, per sua natura, è compassione. Mentre infuria il coronavirus, nello sconcertante disorientamento generale, lo spettacolo della desacralizzazione della morte ci percuote come uno schiaffo vigoroso. L’ultimo atto dell’esistenza umana si trasforma in un evento spietato. Le ferree norme di sicurezza imposte negli ospedali impediscono alle famiglie di stringersi nel dolore. Una solitudine inesorabile cala nei reparti di terapia intensiva, privando i malati della compassionevole vicinanza di un proprio caro negli ultimi istanti di vita. “Salus populi suprema lex”, recita un’antica sentenza latina: la salvezza del popolo deve essere la legge suprema, dunque l’individuo deve scomparire quando si tratta del benessere collettivo. E in nome dell’incolumità di tutti, il singolo è costretto a fare un passo indietro, anche in una situazione limite come la morte. Non un ultimo abbraccio, uno sguardo affettuoso, una parola di conforto. E il gelo muto dell’addio fa male a chi se ne va e a chi resta: chi muore si sente abbandonato nel momento irreparabile della propria esistenza, chi rimane in vita, soffocato nella possibilità di praticare la pietà, sentimento che lo sottrae al suo isolamento e lo unisce agli altri, non può sublimare il dolore. E muore dentro, morendo quella parte di sé che era nell’altro. Perché la pietà, come diceva Tolstoj, “mentre addolcisce le sofferenze degli altri, è giovevole ancor più a colui il quale la prova”. La vicinanza al morente durante il trapasso è un momento essenziale per l’elaborazione del lutto, quel processo psico-emotivo che, attraverso varie fasi, trasforma i vissuti dolorosi fino all’accettazione della perdita come evento rientrante nell’ordine naturale delle cose e al ritrovamento di un nuovo equilibrio dopo il distacco. D’altra parte i rituali funebri, nel conferire al commiato un respiro collettivo, rafforzano i vincoli sociali e uniscono gli uomini in una sorta di abbraccio corale, alleviando la pena della comune condizione di precarietà.

La tragedia che si sta consumando sotto i nostri occhi ci costringe a riflettere. E la maniera più empatica e nelle nostre corde di “praticare” la riflessione è nel frequentare quel grande, prezioso, caleidoscopico teatro di emozioni, sentimenti e passioni che è la letteratura.

Un famoso passo del “Decameron” di Boccaccio ci offre una dettagliata e suggestiva descrizione antropologica di alcune significative e vistose differenze tra i riti funebri: quelli del mondo culturalizzato, in uso prima dell’epidemia di peste che colpì Firenze nel 1348, e quelli sopravvenuti a seguito della calamità inaspettata, che spazzò via ogni traccia di umanità. E dal racconto di eventi occorsi più di seicentocinquanta anni fa promana un senso di profonda pietà che suscita commozione, come quella che proviamo oggi davanti al triste spettacolo delle bare in attesa di essere portate via dai mezzi militari. Una corrispondenza del sentire che sollecita una riflessione nella riflessione: l’importanza di leggere i “classici”, quei libri che, osservava Calvino,  “persistono come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona”.

Nell’Introduzione alla prima giornata del “Decameron”, di cui riporto di seguito un passo, nel rievocare le consuetudini precedenti al morbo, l’autore allude all’usanza che induceva parenti e amici del defunto a vegliarne la spoglia. Davanti alla casa del morto si radunavano conoscenti, vicini, cittadini, gente di chiesa; lì si attendeva che uscisse il feretro, trasportato a spalla, per seguirlo fino alla chiesa scelta in vita dal defunto. Si componeva a quel punto un corteo silenzioso, ricco di religiosità e di pietoso raccoglimento. Questa consuetudine durante la peste viene abbandonata; l’uomo muore solo, senza che nessuno se ne accorga o se ne occupi, la bara viene trasportata da becchini, uno sparuto gruppo di persone segue il corteo, non si raggiunge la chiesa prescelta, ma si scarica la spoglia nella prima sepoltura vuota. La peste finisce per soffocare i sentimenti più nobili degli esseri umani, quali la pietà e la carità nei confronti dei propri simili.

“Per che, quasi di necessità, cose contrarie a’ primi costumi de’ cittadini nacquero tra coloro li quali rimanean vivi. Era usanza, sì come ancora oggi veggiamo usare, che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano, e quivi con quelle che piú gli appartenevano piagnevano; e d’altra parte dinanzi alla casa del morto co’ suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini ed altri cittadini assai, e secondo la qualità del morto vi veniva il chericato, ed egli sopra gli omeri de’ suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta anzi la morte n’era portato. Le quali cose, poi che a montar cominciò la ferocità della pistolenza, o in tutto o in maggior parte quasi cessarono, e altre nuove in lor luogo ne sopravvennero. Per ciò che, non solamente senza aver molte donne da torno morivan le genti, ma assai n’erano di quegli che di questa vita senza testimonio trapassavano: e pochissimi erano coloro a’ quali i pietosi pianti e l’amare lagrime de’ suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di quelle s’usavano per li piú risa e motti e festeggiar compagnevole; la quale usanza le donne, in gran parte posposta la donnesca pietà, per salute di loro, avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro i corpi de’ quali fosser piú che da un diece o dodici de’ suoi vicini alla chiesa accompagnati; de’ quali non gli orrevoli e cari cittadini, ma una maniera di beccamorti sopravvenuti di minuta gente, che chiamar si facevan becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva, sottentravano alla bara; e quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte disposto, ma alla piú vicina le piú volte il portavano, dietro a quattro o a sei cherici con poco lume, e tal fiata senza alcuno; li quali con l’aiuto de’ detti becchini, senza faticarsi in troppo lungo oficio o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata trovavano più tosto il mettevano”.

Oggi come ieri, le epidemie hanno il potere di distruggere la sacralità della morte. La perdita della dignità dei riti funerari, cui assistiamo in questa tragica emergenza, segnala un imbarbarimento della società e lo smarrimento dei suoi principali valori spirituali: mutuo soccorso, comprensione, empatia, amore autentico, compassione. Quest’ultima rappresenta una delle più alte virtù, in contrapposizione agli istinti feroci ed aggressivi insiti nell’uomo. Nella pietà verso i morti si dà identificazione di sé nell’altro, ovvero il riconoscimento della identità di specie; essa, dunque, esprime un passaggio decisivo della consapevolezza umana e della civiltà. A questo proposito si ricorda la grande lezione di Giambattista Vico, il quale affermava che il culto dei morti è un momento costitutivo della nascita della civiltà, insieme agli istituti della famiglia, della giustizia e della religione. Esso è da custodire “santissimamente”, perché “il mondo non s’infierisca e si rinselvi di nuovo” e affinché non sia smarrito il valore della pietà. Il sorgere di questi istituti ha segnato il passaggio dell’uomo dalla ferocia belluina dell’età primitiva al rispetto reciproco delle età civili. Intorno ai riti funebri, inoltre, si raccolgono i valori di un popolo: essi, dunque, rappresentano un parametro di verifica del grado di civiltà di una data società. Lo ricorda il poeta che ha esaltato la funzione civile delle tombe, Ugo Foscolo, il quale riecheggia le posizioni di Vico in alcuni memorabili versi dei “Sepolcri”  “…e fu temuto/ su la polve degli avi il giuramento/: religion che con diversi riti/ le virtù patrie e la pietà congiunta/tradussero per lungo ordine d’anni”. Preservare il culto dei morti, che è tutt’uno con l’idea stessa di storia, di civiltà, di religione, significa, allora, custodire quei valori sociali e civili che, purtroppo, rischiano continuamente di perdersi.

Ed è proprio in questo epocale passaggio storico, di spaesamento, solitudine, paura, guerra, che dobbiamo difendere la nostra umanità e reagire al male e alle ferite del mondo con la solidarietà, stringendoci in un’alleanza sociale, quella “social catena” in cui Leopardi riconosce il senso della civiltà. Mai, poi, dobbiamo rinunciare a mettere in campo il sentimento alto e nobile della pietà che è a fondamento del vivere civile. Di essa è simbolo suggestivo e senza tempo il pius Enea, l’eroe umano che, al divampare dell’incendio nella città di Troia, non esita a mettere in salvo il vecchio padre Anchise portandolo sulle spalle e il figlio Iulo tenendolo per mano.