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«Volete che il territorio della provincia di Benevento sia separato dalla Regione Campania per entrare a far parte integrante della Regione Molise?». Eccola una ipotesi plausibile del quesito a cui gli elettori sanniti dovrebbero fornire una risposta qualora davvero si arrivasse al referendum per il Molisannio.

L’indicazione proviene dall’unico precedente nella storia repubblicana. Risale al 21 ottobre del 2018 e vedeva protagonista il territorio del Verbano Cusio Ossola, Provincia piemontese ma in odor di Lombardia. A spingere per il trasloco, in particolare, fu la Lega locale e toccò proprio a Salvini – all’epoca ministro dell’Interno –  fissare la data della consultazione. Il tutto, ovviamente, in ossequio al secondo comma dell’articolo 132 della Costituzione: “Si può, con l’approvazione della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Provincie e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra”.

Nel 2018, dunque, la vicenda interessava Piemonte e Lombardia, nel nostro caso Campania e Molise. Cosa cambia? Nulla visto che non sono coinvolte regioni a statuto speciale, fattispecie questa che avrebbe complicato l’iter perché sarebbe servita una legge costituzionale e non più ordinaria dello Stato (così come per la creazione di una nuova regione, primo comma articolo 132).

L’iter da seguire, quindi, prevede innanzitutto l’iniziativa popolare: qualcuno (di solito si istituisce un comitato ‘ad hoc’) deve raccogliere le firme e spetta al Consiglio Provinciale stabilire il numero sufficiente. Cinquemila quelle richieste dall’assemblea di Verbania (la provincia conta circa 160mila abitanti). Raccolte le sottoscrizioni, tocca al Consiglio Provinciale dare (o meno) il via libera alla richiesta di referendum. Poi palla alla Cassazione, che verifica l’ammissibilità del quesito, e infine al Consiglio dei Ministri che su indicazione del Viminale fissa la data delle elezioni. Il referendum ha comunque valore consultivo: in caso di vittoria dei sì serve una legge ordinaria con il Governo che prima di esprimersi deve “sentire” i consigli regionali interessati. 

Insomma, non una passeggiata di salute. Eppure guardando ai tempi, in Piemonte la pratica la sbrigarono in un anno. La raccolta firme fu avviata dal senatore Zanetta (leghista ed ex forzista) nell’autunno del 2017. La primavera seguente arrivò il via libera del Consiglio Provinciale, all’unanimità “per rispetto degli oltre 5mila sottoscrittori della petizione” e il 13 luglio si espresse la Cassazione. Il 10 agosto, poi, il Consiglio dei Ministri indicò la data del voto nel 21 ottobre 2018, dodici mesi dopo l’inizio della procedura.

Il racconto del precedente si ferma qui. A stoppare l’iter intervenne infatti la volontà popolare: soltanto il 33% degli aventi diritto al voto partecipò alla consultazione, affluenza decisamente lontana dal 50%+1 richiesto. 

E’ stata comunque l’unica volta in cui una Provincia italiana ha concluso con un referendum il tentativo di cambiare Regione d’appartenenza. Diverso il discorso dei singoli comuni o di aggregazioni di comuni: una trentina, solo negli ultimi anni, i passaggi da una Regione all’altra tentati e molto spesso riusciti.