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Benevento – Il medico, l’ospedale “San Pio”, le vite umane e la pandemia. È il racconto del Dott. Pasquale Donnarumma, Neurochirurgo e Chirurgo Vertebrale che dopo quasi due anni lascia il principale nosocomio sannita e, in una lettera, saluta la città di Benevento ripercorrendo quello che è stato il Covid-19 per un medico.

“Lettera di Saluti a Benevento.
Si conclude così, con uno smonto notte, il mio ultimo turno all’Ospedale San Pio, una volta conosciuto come Rummo, Ospedale Civile, di Benevento.
Si conclude una stagione lavorativa durata quasi due anni, un tempo non breve e allo stesso modo lungo a sufficienza per fare un bilancio considerando che di cose, in questi soli due anni, ne sono successe tante. Avverto il bisogno di salutare con profondo affetto alcuni, tra i colleghi medici neurochirurghi e in particolare di pronto soccorso, anestesisti e neurologi, quelli coi quali abbiamo lavorato quotidianamente con affiatamento, gli infermieri di reparto e di sala operatoria, le due caposala, il personale ausiliario. Con alcuni di voi abbiamo costruito in questi anni un rapporto speciale, e non c’è bisogno che faccia gli elenchi che non sono mai cortesi, quelli a cui mi riferisco sanno che mi sto riferendo a loro, perché sono sicuro che chi mi ha voluto bene lo abbia avvertito ancora di più in questi ultimi tempi, negli sguardi che ci siamo scambiati e nelle parole di stima che ci siamo detti e forse non sempre detti. Quelle, poi, mi direte, valgono ma fino a un certo punto, tanto lo sapete cosa penso, non è mai stato un segreto, è merito vostro se l’ospedale ha garantito e garantisce l’assistenza agli ammalati, è merito vostro, dei vostri sacrifici, del vostro adeguarvi alla carenza di organico in tutti i settori, del vostro lavoro quotidiano, delle vostre ferie non godute, dei pericoli per la vostra salute e per quella dei vostri cari che correte tutti i giorni avendo a che fare con tutti i tipi di rischi possibili. Insieme a voi abbiamo affrontato forse i momenti più difficili della nostra professione, momenti drammatici che non sarà semplice dimenticare. Prima di lasciare quest’ospedale per l’ultima volta chiudo gli occhi e passo in rassegna questi due anni, tornando ai primi giorni di pandemia di Covid-19, quando questo virus sembrava solo uno spauracchio dalla Cina e da un giorno all’altro ci ha travolti con tutta la sua virulenza, diciamoci la verità, cogliendoci di sorpresa e impreparati. Sono sicuro che quando tutto sarà finito non daremo una lettura diversa di quei momenti, quando non sapevamo come mettere in sicurezza noi stessi e i nostri pazienti, quando le mascherine e gli altri presidi di protezione scarseggiavano, quando anche solo eseguire un tampone ci sembrava un’impresa, quando entravamo in paranoia per aver toccato a mani nude il corrimano delle scale.
Quando avevamo paura di smontare e tornare a casa.
Dopo la bufera ci eravamo, insieme, conquistati una quasi normalità e all’improvviso è esplosa la seconda ondata, anche quella ci era sembrata un pericolo scongiurato, poi da un momento all’altro ci siamo ritrovati con un focolaio divampato proprio nel reparto di Neurochirurgia, infettando indistintamente pazienti, medici e infermieri. A beccarsi la Sars-Covid19, la malattia infettiva più temibile del secolo, seconda causa di morte in Italia per l’anno 2020, siamo stati talvolta noi, quelli che in ospedale ci vanno per lavorare.
Chi potrà mai dimenticare i gelidi giorni di dicembre in cui prendevamo servizio solo per le urgenze, di notte, tra i pochi miracolosamente negativi al tampone, in un reparto senza più degenti e personale, dove si sentivano solo i nostri passi e il telefono squillare tra le pareti vuote.
Eppure, insieme, abbiamo accettato tutto questo, abbiamo accettato i rischi, abbiamo accettato di affrontare una malattia infettiva sconosciuta, lo abbiamo fatto perché è compreso nella nostra etica professionale. E abbiamo fatto anche di più, abbiamo accettato di combattere il Covid-19 non come nemico singolo, ma in associazione a tutte le altre malattie che già affrontiamo quotidianamente nelle nostre Unità Operative, le quali anche in assenza di malati di Sars-Covid19 ospitano pazienti gravi, pazienti complessi. E, lo scrivo per chi non abbia avuto a che fare con l’ambiente ospedaliero nell’ultimo anno, se da un lato nelle terapie intensive si è lavorato per gestire le complicanze e l’alto flusso di pazienti che entravano con la diagnosi certa di polmonite interstiziale, in tutti gli altri reparti si è continuato a lavorare con l’incubo che questa malattia serpeggiasse tra le nostre fila, tra i nostri ricoveri, durante i nostri interventi chirurgici.
Abbiamo accettato con coraggio e consapevolezza tutti i possibili scenari della nuova pandemia.
Tutti o quasi.
Quello che proprio non siamo riusciti a mandare giù sono state le conseguenze collaterali che si sono generate sul nostro lavoro, conseguenze affatto dipese da noi.
In primo luogo lo smembramento del reparto di Neurochirurgia e Neurologia, con infiniti traslochi da un padiglione a un altro, di degenti, medicali e apparecchiature operatorie, che ci hanno costretti a cambiare per diverse volte la location dove svolgere le nostre mansioni, risultando in ultimo in una marcata restrizione dei posti letti disponibili, letti preziosi, che siamo stati costretti a dedicare unicamente alle patologie più urgenti, soprattutto alle patologie encefaliche, quelle che mettono a repentaglio la vita dei pazienti. Sappiamo quanto un trasferimento sia un evento traumatico per un lavoratore, noi ne abbiamo fatti sei in un anno, sei trasferimenti in cui ci siamo trovati di fronte ad ambienti di lavoro nuovi, a ricominciare tutto daccapo, e svolgere con professionalità il nostro delicato mestiere.
Tutto questo infine è sfociato nella quasi impossibilità a eseguire interventi di elezione, come la maggior parte degli interventi di chirurgia vertebrale, la disciplina che, come sapete, pratico con passione e per la quale ho dedicato tutti i miei anni di studio e formazione.
Ogni settimana da quando è iniziata la pandemia ho passato in rassegna le liste d’attesa chilometriche pensando ai ricoveri che non sono stati, pensando a quei cittadini che, per loro sfortuna, sono affetti da una patologia cronica in un’epoca di pandemia, una patologia che non compromette un rischio per la vita, ma che risulta essere invalidante per le attività della vita quotidiana. Ed ecco davanti ai miei occhi decine di ernie del disco, spondilolistesi, stenosi lombari, scoliosi degenerative, visitati più di un anno fa e ancora in attesa di un intervento che, come è ovvio che sia, non potrò più eseguire all’Ospedale San Pio. A loro va il mio pensiero più empatico.
Siamo stati costretti a non offrire un’alternativa terapeutica a chi soffre in silenzio di un altro male, allo stesso modo in cui non abbiamo trattato i pazienti destinati al servizio di Day-Surgery, chiuso da marzo 2020, con la conseguenza che centinaia di persone sono state costrette a convivere con dolori di varia natura che potevano giovarsi di una terapia infiltrativa.
Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle che non c’è peggior condanna per un ammalato di non poter essere curato quanto forse per un chirurgo di non poterlo operare, per un medico di non poterlo curare, per un infermiere o un ausiliario di non poterlo assistere.
Da qualche parte ho letto che i medici e gli infermieri che hanno lavorato nel SSN durante i mesi della pandemia sono degli eroi e che per questo motivo sono stati addirittura candidati al Premio Nobel.
Io durante i mesi della pandemia ho lavorato nel SSN come neurochirurgo all’Ospedale San Pio di Benevento e non mi sento un eroe.
Io di un Premio Nobel per essere sopravvissuto al Covid-19 e non aver svolto il mio lavoro come avrei voluto non me ne faccio niente.
Io chiedo soltanto di potermi prendermi cura di quelle persone che non sono state curate.
Il mio auspicio è di ripartire esattamente da lì, da dove eravamo rimasti, con una nuova avventura.
A voi che nutrite i miei stessi sentimenti e il mio stesso entusiasmo per le cose nuove senza riuscire a dimenticare quelle vecchie va il mio più profondo attaccamento.
Ci vediamo presto!”.