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Benevento-Venezia è appena terminata, Oreste Vigorito e Pasquale Foggia dialogano a lungo davanti agli spogliatoi, lontano da occhi indiscreti. Volti scuri, sguardo perso nel vuoto, cercano spiegazioni che non riusciranno mai a trovare. La squadra sta colando a picco: settima sconfitta in casa, decima complessiva di un campionato da incubo che neppure il (povero) mercato invernale è riuscito a far svoltare, penultimo posto in classifica. In sottofondo si percepiscono chiaramente i cori dei tifosi. Molti hanno lasciato i rispettivi settori anzitempo per evitare il traffico ma soprattutto l’agonia di un forcing troppo tiepido per produrre almeno un pari.

Chi è rimasto ha però alzato la voce fino a perderla, risparmiando nelle reprimende solo il patron. “Tutti via da Benevento” il coro più cantato, ma l’acclamazione plenaria l’ha ricevuta soltanto quello rivolto al direttore sportivo. Lo ha fatto partire la Curva Sud a pochi minuti dalla fine e lo ha applaudito tutto lo stadio come se fosse un gol. Una sottolineatura evidentissima sul fatto che tra la piazza e Pasquale Foggia la storia (forse mai nata) fosse arrivata al capolinea. Un segnale colto – seppur tardivamente – dallo stesso Vigorito, che poi ha comunicato sia al diesse che a Fabio Cannavaro l’esonero con effetto immediato.

Facce scosse e nervose, quelle dei tifosi che scendono le scale dopo il fischio finale. Qualche frase in dialetto (non trascrivibile) va a scontrarsi con il pallido sole che sta salutando un altro sabato amaro. I calciatori giallorossi tornano a testa bassa negli spogliatoi, rifiutandosi di camminare verso la Curva. Qualcuno impugna la maglia, altri se la portano al volto quasi a nascondersi. Nessuno di loro ha il coraggio di guardare negli occhi il compagno, almeno sul rettangolo verde, perché negli spogliatoi il faccia a faccia è stato di quelli tutt’altro che dimenticabili. E’ l’immagine triste di una squadra mai in simbiosi, di un gruppo senza stimoli che pare abbandonato a un destino crudele. Nessuno ci mette la faccia neppure davanti ai microfoni. La frase ‘silenzio stampa’ arriva puntuale, decisa, eppure non sorprende più nessuno. Il ‘no comment’ è diventato ormai abitudine, anche quando precede decisioni drastiche come quella comunicata poco prima delle ore 18.

Nel frattempo, all’esterno del Vigorito, piccoli gruppetti di tifosi scambiano qualche parola. Gli esponenti dei gruppi organizzati tornano a casa, non sembrano avere nemmeno la forza di contestare. Cinque ragazzini giocano a rincorrersi, un paio di persone urlano diversi insulti all’indirizzo di Cannavaro e Foggia nella speranza che i destinatari – e il presidente – riescano a sentirli. Chiedono che i due vadano via, un’ora più tardi saranno accontentati. Un signore sulla settantina dice all’amico che “un primo tempo come questo, nemmeno ai tempi della serie D”, e sono passati parecchi anni. A pochi passi da loro, un bambino sgranocchia patatine come se lo spettacolo fosse sul punto di iniziare. E invece no. Nessuna contestazione là fuori, soltanto l’indifferenza di una città silenziosa, angosciata, fino all’altro ieri mobilitata soltanto dal gioco del calcio, che da qualche anno la culla facendole dimenticare gli annosi problemi della quotidianità. Oggi no, domani chissà. Allo stadio erano accorsi anche quasi tutti gli abbonati, invitati al ballo coi gondolieri da una giornata ricca di toni primaverili. Erano in tanti a crederci anche stavolta, nonostante tutto. Ma quando il pullman della squadra va via, all’ora del tramonto, non c’è davvero più nessuno ad accompagnarne l’andatura.

Benevento-Venezia, le pagelle: Acampora horror, Leverbe da censura, Paleari shock