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Lo strano destino di Antonio Juliano ci rotola davanti agli occhi, sbucando tra un elogio funebre e un amarcord. È una scheggia di verità, che sfregia la retorica, ma anche tanta sincera malinconia. Antonio, anzi Totonno nella vulgata, “il capitano” del Napoli per antonomasia. Ragazzo del popolo, figlio di salumieri, occhi svegli e tratti inconfondibili, come gli scugnizzi di San Giovanni a Teduccio. Cresciuto specchiandosi nel mare di Vigliena, tra le miserie del dopoguerra, tirando calci a un pallone. Venuto su dal niente, giorno per giorno, arrivò al massimo. Un napoletano capitano del Napoli, per 12 stagioni, privilegio toccato a nessuno. Qui si racconta una carriera straordinaria. Juliano è stato un totem a Napoli, una istituzione. Poi anche la Nazionale, l’alloro europeo del ’68, la spedizione di Mexico ’70.

Ma dietro l’omaggio celebrativo, c’è un retrogusto amaro. Qualcosa che non quadra, in tanta solennità. Totonno tanto ha dato, ma molto meno ha avuto. Meno di quanto talento e carisma potevano far immaginare. Non ha avuto, per dire, la gioia più grande. Non ha mai vinto lo scudetto col suo Napoli, cui da giocatore donò 17 anni. In campo accarezzò quel tabù, col bellissimo Ciuccio di Luis Vinicio. Fu Juliano a siglare l’illusorio pareggio a Torino, nella decisiva sfida del ’75 con la Juventus. Poi venne il celebre graffio di core ‘ngrato Altafini. Ancora più avaro il bilancio da manager. Eppure Juliano vestì d’azzurro i due più grandi calciatori del club, per acclamazione: Diego Maradona e Rudy Krol. Per trattare Dieguito fece la spola con Barcellona, un mese avanti e indietro, con tenacia da mastino. Solo per quello, avrebbero dovuto fargli una statua equestre, un segno imperituro. E anche qui tanti rimpianti. Su Maradona fu cucito il Napoli più vincente della storia. E altri colsero quei frutti di Juliano.

Ma lo scudetto, davvero, poteva arrivare prima. Nel rocambolesco campionato 80-81, annata indimenticabile, l’anno del terremoto. Juliano era il dg. Il sognò sfumò in una partita stregata, in casa con un Perugia retrocesso, davanti a 90.000 sguardi increduli. La beffa si consumò con un autogol di Moreno Ferrario. Da calciatore Totonno non ebbe nemmeno il tributo finale, la standing ovation. Ovvero la possibilità di chiudere col Napoli. L’ultima maglia fu rossoblù a Bologna, quella del vecchio rivale Giacomo Bulgarelli, passato dietro la scrivania. Juliano emigrò sotto le due torri, dopo una lite con la società. E altri screzi, abbandoni, ritorni avrebbero costellato il cammino da dirigente azzurro. L’ultima volta fu in serie B, stagione 98-99. Un tonfo dopo un’umiliante retrocessione. Il Napoli vedeva già il baratro, fallimento e serie C. Lontana era la rinascita targata De Laurentiis. Ma non ce lo aveva portato Juliano lì, in quella mestizia infinita. Lui accorse, l’ennesima volta, a disastro ormai conclamato. Rispose presente, il cuore chiamava. Aveva i cromosomi azzurri, mai traditi per tutta la vita. Ma avrebbe meritato di più. Uno strano destino, ingrato con Totonno.