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Napoli-  Tangenti tra i 20mila e 10mila euro al mese e canali obbligati per le procedure di acquisto e vendita della droga. I narcos che volevano fare affari a Pianura dovevano sottostare alle rigide condizioni dettate dal boss Pasquale Pesce. All’indomani della sua decisione di passare dalla parte dello Stato, è lo stesso capoclan “’e Bianchina” a svelare agli inquirenti ogni dettaglio del “sistema” da lui capeggiato.
È ormai dal 12 luglio che il boss flegreo sta parlando a ruota libera con la Procura antimafia. I suoi racconti hanno già svelato e risolto due clamorosi delitti: l’omicidio di Giuseppe Perna, vittima di un’epurazione interna che sarebbe stata orchestrata dal ras Vincenzo Vigna, e quello di Luigi Aversano, affiliato agli eterni rivali del clan Mele e per questo fatto fuori proprio per volontà dello stesso Pesce. Ma non c’è soltanto il sangue nelle decine di pagine di verbali che “’e Bianchina” sta contribuendo a redigere. Le sue dichiarazioni hanno fatto luce anche sul vorticoso giro di denaro e droga che per anni ha caratterizzato la sua reggenza. Cifre impressionanti, che hanno consentito alla cosca dei Pesce-Marfella di tenere per anni sotto scacco un intero quartiere. I dettagli dell’organizzazione emergono nel corso della ricostruzione che l’ormai quasi ex boss fa del suo rapporto con il capopiazza Salvatore Luongo: vecchia conoscenza delle forze dell’ordine, finita nuovamente in manette il 14 marzo scorso nell’ambito della retata che ha determinato l’azzeramento dei vecchi vertici dei due clan pianuresi.
Con queste parole Pasquale Pesce risponde agli interrogativi del sostituto della Dda Francesco De Falco: «Salvatore Luogo, detto “Totore ’e baccalà”, è un venditore all’ingrosso di cocaina e hashish. È il suocero di Salvatore Marfella, ma non si può considerare un esponente del clan». “’E bianchina” spiega quindi come funzionavano le cose per chi voleva fare affari sul suo territorio: «Uscito dal carcere nel 2011, insieme a Vincenzo Foglia, gli imposi una tangente da 20mila euro, poi ridotta a 10mila euro per l’intervento di mio cugino Salvatore Marfella. In seguito ho iniziato a rifornirmi da lui acquistato quantitativi di cocaina variabili da 100 grammi fino a un chilo o anche un chilo e mezzo per volta. Dal 2012 in avanti è successo un gran numero di volte». Pasquale Pesce ben presto alzò però le pretese: «Essendo venuto a conoscenza che si riforniva da gente di altre zone, gli dissi che poteva acquistare solo con il mio consenso, poiché dovevo entrare anch’io in quegli acquisti. Il garante del pagamento verso questi fornitori era solo Luongo, mentre dividevamo il quantitativo acquistato a metà». Il cerchio non era però ancora mica chiuso: «Luongo gestiva la sua metà vendendola e pagando a me e a Salvatore Marfella una percentuale; mentre io e mio cugino vendevamo l’altra metà a privati o rifornendo le “piazze” controllate dal clan Pesce-Marfella. I nostri ricavi venivano poi utilizzati per le spese del clan. Spesso siamo stati poi noi a rifornire Luongo, guadagnando il sovrapprezzo tra il costo di acquisto e quello di vendita».