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Napoli – Il rumore è, per definizione, un suono inopportuno, non desiderato e perlopiù fastidioso. Eppure, per fortuna o purtroppo, è proprio col rumore che spesso le voci più nascoste e ignorate riescono a farsi strada, le stesse voci grazie alle quali gli sviluppi più importanti della storia hanno preso forma. Il flamenco racconta la storia di un popolo che per secoli ha subito limitazioni e persecuzioni, ma è riuscito, nonostante tutto, a conquistare gli animi con il suo “rumore”, caratterizzato dalle inconfondibili parole dei cantaor, dal suono nostalgico della chitarra e il magnetismo dei bailaor. Un “rumore” considerato patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’Unesco. Lo spettacolo si apre con un quadro flamenco, tipico dei tablao andalusi, dove si susseguono “palos” che descrivono il carattere forte, drammatico, sensuale e allegro del flamenco. Un secondo quadro, invece, porta in scena il legame tra l’arte del baile flamenco e la storia della nostra città, di ieri e di oggi. “Quando”: una parola, mille intenzioni, innumerevoli sentimenti, infinite speranze. Le speranze di chi durante la Seconda Guerra Mondiale trovava rifugio in queste gallerie scavate nella roccia; e quelle di tutti noi, che costantemente confidiamo nella fine di questa pandemia che ha messo in ginocchio l’intero pianeta. È un grido di liberazione, per riprendere il contatto con quella realtà che ormai osserviamo soltanto attraverso l’invisibile ma costrittiva bolla dall’isolamento sociale, che ci priva dei reali contatti di cui tutti abbiamo bisogno.