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Caserta – Ancora un “no” del Ministero dell’Interno ai familiari di una vittima innocente del clan dei Casalesi, che avevano chiesto di accedere al Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso per ottenere il pagamento della provvisionale da 60mila euro riconosciuta dalla sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Napoli emessa nel 2017. Si tratta della moglie e delle due figlie di Pasquale Pagano, ucciso il 26 febbraio del 1992 insieme a Paolo Coviello dai killer del clan dei Casalesi per un errore di persona; i due, è emerso dal processo in cui sono stati condannati definitivamente i sicari, furono scambiati per i bersagli prescelti, ovvero i camorristi Alfredo Zara e Domenico Frascogna. Gli stretti congiunti di Pagano avevano dunque chiesto al Viminale l’erogazione dei fondi, ma hanno ricevuto un preavviso di rigetto dal Viminale perché il proprio caro ucciso, pur ritenuto vittima innocente dalla sentenza giudiziaria e pur non avendo mai fatto parte del clan, non sarebbe del tutto estraneo agli ambienti delinquenziali, avendo un fratello con problemi penali; Armando Pagano, fratello di Pasquale, ha infatti commesso dei reati non di camorra, ma relativi allo spaccio di droga; fatti avvenuti peraltro quasi tutti dopo la morte di Pasquale Pagano. Stesso esito anche per i familiari di Coviello, per i quali il “no” del Viminale è stato giustificato dalla presenza di parenti entro il quarto grado vicini al clan.

La norma contestata non ha permesso ai familiari di molte vittime innocenti di avere il beneficio; tra i casi più noti quello concernente Marisa Garofalo, sorella di Lea Garofalo, vittima dell’ndrangheta – fu uccisa e il corpo bruciato – dopo aver testimoniato contro il marito e il cognato affiliati. Preso atto della decisione, seppur ancora parziale, del Viminale, la moglie di Pagano, Filomena, e le figlie Romilda e Rosa (assistite da Giovanni Zara), hanno così scritto una lettera al Ministero, in cui si definiscono “orfane, abbandonate e ora anche ingiuriate da uno Stato che invece di sostenerci ci abbandona”. “Aver perso nostro padre – scrivono – quando eravamo troppo piccole per comprendere ed elaborare un lutto così violento, ci ha provocato una profonda chiusura d’animo. Siamo cresciute con difficoltà, in tutti i sensi immaginabili, mai libere di sorridere perché mai spensierate e sempre attente ad ogni amicizia, conoscenza, comportamento. Da un giorno all’altro ci siamo ritrovate adulte senza esserlo. Lo sapete per due bambine cosa vuol dire perdere il papà in quella maniera? Quando hanno trovato gli assassini di papà e quando il motivo dell’uccisione è stato chiaro, abbiamo creduto che l’incubo durato 23 anni fosse finalmente finito. Ed invece no, perché in quell’incubo voi volete ricacciarci. Volete per noi una nuova enorme ingiustizia, dicendo che mio padre noi tre “non siamo estranee ad eventi delinquenziali, perché abbiamo la sventura di avere come zio un delinquente. La nostra pubblica abiura contro il fratello di nostro padre è partita molto tempo prima di questo procedimento. Armando Pagano non solo ha sbagliato contro la giustizia, ma con la sua condotta ha imbrattato la memoria di papà. L’ingiuria di non essere estranei ad ambienti delinquenziali non è sostenibile; state calpestando in un solo colpo la dignità di un morto ammazzato innocentemente, di una donna rimasta violentemente vedova e di due figlie che hanno finito le lacrime” concludono.