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Erano i primi giorni dell’autunno 1949, la pioggia era insistente alle prime ore dell’alba del 2 ottobre e la città di Benevento era da poco uscita dalla seconda guerra mondiale, costretta a fare i conti con le macerie e la povertà. Esattamente alle 5,30 gli archi del Ponte di SantaMaria degli Angeli (Rione Libertà) vennero completamente travolti dalla potenza delle acque, che scorrevano alla velocità di 80 km all’ora.

Il livello del fiume crebbe fino ai secondi piani, ovvero oltre i 14 metri di altezza dal pelo della corrente del Calore. Al Rione Ferrovia la città fu tagliata in due, il Ponte Vanvitelli venne sommerso completamente e i cittadini più fortunati scapparono verso il Duomo, gli altri cercarono salvezza sulle finestre degli ultimi piani e sui tetti. Una immensa pianura di acque sommerse Contrada Pantano, dove altissimi pioppi del Canadà sembravano semplici arbusti. Ma la zona più preoccupante fu quella industriale, moltissimi gli operai che persero casa, lavoro e familiari nel giro di pochi minuti; macchinari di 40-50 quintali trascinati via per metri e metri; tante le aziende e le fabbriche distrutte, quella del legno, quella molitoria, la Federconsorzi,
la manifattura tabacchi e dei trasporti.

Alle ore 9, i primi ad accorrere sul luogo del disastro furono gli ingegneri, i funzionari e i subalterni del genio civile, che insieme studiarono una strategia, infatti si era già al lavoro per minare il Ponte Vanvitelli, che sarebbe stato sacrificato nel tentativo di dare maggiore sfogo all’acqua perché le sue cinque arcate non consentivano il libero deflusso. Poi un contrordine, le acque si stavano ritirando e tutto il paesaggio tornò alla vista di quegli abitanti scappati sulla parte alta della città per vedere la furia e gli effetti di questa sciagura che molti, nel 2015, sono stati costretti a rivivere, alcuni insieme anche ai propri figli e nipoti. Il Ponte Vanvitelli, nel 1960, fu ugualmente distrutto e rimpiazzato da una struttura più agile a sole tre arcate, è lunga 130 e larga 17 metri e furono effettuate nel contempo poderose opere di arginatura. Nel ‘49 furono 200 le famiglie rimaste senzatetto che vennero accolte in vari edifici disponibili, la maggior parte al Liceo Giannone. L’acquedotto non resse e tutta la città rimase priva di acqua e corrente elettrica per giorni.

 
I danni furono quantificati, secondo le fonti dell’epoca, in tre milioni e mezzo di lire. Il ponte Causi a S. Giorgio la Molara crollò, ostruito da tronchi di pioppo. Le vittime di questa sciagura non furono due come tre anni fa, ma ben 17 nella sola città di Benevento. Mille i morti nell’intera provincia. Nel 1949 oltre l’arcivescovo Agostino Mancinelli e il sindaco Salvatore Pennella, non c’erano altre autorità. Infatti trascorsero più di due ore prima che il capo di gabinetto informasse il Governo della situazione; insomma alle ore 12 di quella mattina di 69 anni fa, nessuno se non i beneventani conosceva la disperazione di quella tragedia.
 Dunque la storia si ripete, dopo tanti anni Benevento si è ritrovata sola, ad affrontare l’estenuante lavoro che il fiume porta con sé; non solo detriti e fango, non solo morte, ma la voglia di ricominciare e di ricostruire ciò che esso trascina e annienta ad ogni “bomba d’acqua” che non riesce a sopportare.
 
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