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NAPOLI – Candidato Piccirillo Antonio.

“Di Rosario. Sono figlio di Rosario Piccirillo, boss di camorra”.

Vota Antonio, non Rosario.

“Io sono candidato nella lista di Alessandra Clemente. Babbo ora è libero. Ma lo aspettano altri 15 anni di carcere”.

Sconterà la pena quando lei avrà 40 anni.

“E quando lui ne avrà 75. In vita mia, me lo ricordo più dentro a un carcere che a casa”.

Curriculum.

“Usura, estorsione, associazione a delinquere. A Rosario o’ biondo ho paura di chiedergli altro. Non ce la faccio: già mi ha fatto troppo male”.

La gente si chiederà: il figlio dirà sul serio, l’avrà davvero rinnegato?

“E’ stata la mia scelta di vita. L’unica che potesse salvare anche lui”.

Fece scalpore, era il 2019 quando la rese pubblica.

“Piazza Nazionale, fiaccolata contro la camorra all’indomani dell’agguato che colpì accidentalmente anche Noemi, la bambina sopravvissuta per miracolo”.

Accidentalmente.

“Mi faceva rabbia proprio quest’alibi: “La bambina stava lì per sbaglio”. No: erano i killer lì per sbaglio, no una bambina di 4 anni”.

Come andò?

“Che mi sentii io stesso ferito. Di nuovo”.

E quindi.

“Da qualche tempo stavo già facendo il volontario per l’associazione Ex Don, Detenuti Organizzati di Napoli. Chiamai Pietro Ioia, il garante del detenuti, e gli chiesi cosa potessi fare”.

Cosa le rispose?

“Che c’era la fiaccolata. E che magari potevo andare anch’io”.

E così fece.

“Organizzai 2 macchine. Io e un gruppo di ex detenuti andammo in piazza”.

A un certo punto, prese lei il megafono in mano.

“Il ragazzo che ce l’aveva prima disse: ‘Perché i figli dei boss non prendono le distanze dai padri?’. A quel punto, agii d’istinto”.

Uscì allo scoperto.

Sono Antonio, figlio di Rosario Piccirillo, un camorrista. Amate sempre i vostri padri, ma dissociatevi dal loro stile di vita fallimentare“.

Le parole che le cambiarono la vita.

“Tutti mi osannavano. Ma io provavo vergogna a pensare che a sparare avrebbero potuto essere mio padre o mio zio. E fastidio a pensare: “Occorrevo io a dirlo?”

Evidentemente, sì. 

“Ora ho 25 anni. Ma da bambino mi porto appresso il male di mio padre e della mia famiglia: la camorra è una grande menzogna. Fa fare una vita di merda. E io già sono fortunato a dirlo”

Perché fortunato?

“Perché, come si dice in gergo, non ho o’ sang n’terra. Non ho visto papà o un mio familiare ammazzato. E io stesso e mio fratello siamo ancora vivi”.

Per fare cosa?

“Per testimoniare che magari se ne può uscire”.

Per farlo bisogna essere credibili.

“Per me, possono testimoniare tutti quelli che mi conoscono da quando frequentavo le elementari all’istituto Necker, a San Pasquale. Quando chiedevo dove fosse mio padre in occasione delle recite scolastiche o delle feste del papà, con la mia come le altre mamme-bugiarde che accampava scuse su scuse. Da allora, depressione, attacchi di panico, paura”.

Paura di essere ucciso?

“Anche. Una paura paralizzante che mi ha preso anche dopo la manifestazione, per mesi”

Poi ne è uscito.

“Grazie a delle cure psicologiche”.

Nel nome del padre.

“Papà nasce contrabbandiere a Mergellina, noi siamo della Torretta. Mio nonno era conosciuto come Totonno d’e sigarette. Loro parlavano di quei tempi in maniera quasi romantica. Ma chi ci crede? La camorra non ha tenuto mai né morale né principi”.

Lei ha rotto la catena.

“Diciamo che dal 2019 ho un altro tipo di paura”.

Che tipo di paura?

“Una paura stimolante. Prima, il pensiero di poter ripercorrere la vita di mio padre mi paralizzava”.

Di padre in figlio.

“I figli dei medici fanno i medici. I figli dei giornalisti fanno i giornalisti. I figli dei camorristi, qualcuno ci pensa a cosa fanno?”

Fanno i camorristi.

“Esatto. Non bastano i corsi per diventare tutti pizzaioli o baristi. Se a me, ad esempio, piacesse il tennis piuttosto che il calcio? I bambini dei camorristi spesso vengono ghettizzati anche quando entrano in questi percorsi di recupero”.

Lei studia.

“Scienze dell’educazione, grazie ai soldi di un imprenditore. Voglio almeno la laurea di una università telematica”.

E lavora.

“Tra l’altro, la camorra non rende ricchi”.

La sua è una storia di ribellione a una educazione e a un destino, alla Peppino Impastato.

“Come me, sa quanti alla Torretta crescono senza identità, prendendo per buono ciò che dice il primo che si conosce per strada? Per questo bisogna studiare: per essere liberi di pensare con la propria testa. Per avere tutti la possibilità di scegliere che vita fare”.

Distinguere il buono dal cattivo.

“Molti sono illusi che la camorra regali la bella vita. La politica dovrebbe far capire proprio questo: che strada conviene prendere”.

Ora le diranno che è il candidato della camorra.

“Lo so. La politica va avanti per demagogie e frasi fatte”.

Come le è venuto in mente di candidarsi?

“Alla manifestazione di piazza Nazionale conobbi Alessandra Clemente. Dopo un pò di tempo, ci sentimmo di nuovo. Mi invitò a Palazzo San Giacomo. Sua mamma è morta vittima innocente sotto i colpi di un agguato di camorra. Sentimmo le nostre storie intrecciate, ci abbracciammo”.

Poi l’ha richiamata.

Antò, ti vuoi candidare?’ Per me è stata una soddisfazione. Un riscatto. Il figlio di un camorrista riconosciuto come una parte buona, una risorsa della città”.

Quando gliel’ha detto, che reazione ha avuto suo padre?

Buon ‘a papà! Mò te faccio avere na barca ‘e voti

E lei?

Non ti permettere di chiamare nessuno“.

Lui si è arreso?

“Sì, si è reso subito conto che così mi avrebbe danneggiato. Ha solo fatto questa battuta: ha detto che se si candidasse lui sindaco della Torretta verrebbe eletto al primo turno”.

I camorristi votano.

“Mi considererei un vero vincitore anche se ne recuperassi uno”.

Lei è di destra o di sinistra?

“Né di destra né di sinistra. Per anni non sono nemmeno andato a votare, come tutti nel mio quartiere: ‘Tant so’ tutt mariuol’. Poi, nel 2018, ho votato Movimento 5 Stelle. E ora sto leggendo Antonio Gramsci”.

Ora sta con Alessandra Clemente.

“Lei è una che si dà da fare. Ma lo so che è una sfida al limite del possibile”.

Come quella con suo padre?

“Papà, a 60 anni, sta cambiando”.