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Benevento – “Stato emotivo che consiste in un senso di insicurezza, di smarrimento e di ansia di fronte a un pericolo reale o immaginario”. Così l’Enciclopedia Treccani definisce la paura, sentimento che riassume meglio di qualunque altro il periodo critico in cui si è cacciato il Benevento. 

La Strega non vince da 67 giorni, da quell’Epifania che ‘tutti i trionfi si portò via‘. Un pomeriggio di estasi a Cagliari, con vista sull’Europa, si è ridotto ben presto al tramonto di un’idea, di una suggestione, forse di un’utopia. La squadra operaia che faceva tremare gli avversari non c’è più, si è persa in dilemmi che paiono ben lontani dall’essere risolti.

Sessantasette giorni nel linguaggio del campionato si traducono in undici turni desolanti, sporadiche eccezioni a parte. Il calo – evidente e burrascoso, eppure smentito dai diretti interessati fino all’annuncio del ritiro – ha fatto in modo che il bonus accumulato al termine del girone di andata andasse sperperato tra sperimentazioni tattiche avventate, virtuosismi intollerabili e superficialità. 

Lo scrivemmo allora, quando tutto andava a gonfie vele, lo ribadiamo oggi: la differenza tecnica tra il Benevento e le altre, peraltro ben lungi dall’essere colmata da un mercato che lascia ancora perplessi, è un fattore inconfutabile. Partendo da un presupposto simile l’unica via d’uscita è giocare da squadra, cosa che agli uomini di Inzaghi non riesce da troppo tempo. Non vorremmo che una serie di frasi ribadite senza soluzione di continuità in conferenza – spesso usate per dribblare domande insidiose su ruoli e scelte -, il continuo richiamo alla parola ‘miracolo’ e un volto sempre meno sereno davanti alle obiezioni non abbiano fatto altro che creare alibi a un gruppo che al momento fa una maledetta fatica a tenere il campo. 

La sconfitta con la Fiorentina fa male il doppio non soltanto perché figlia di uno scontro diretto, ma perché a parità di punti e condizioni sono stati i viola ad aggredire la preda, a mostrare gli artigli fin dal fischio d’inizio. Una situazione tutt’altro che nuova, considerando che i confronti con Crotone e Spezia sono lì a ricordarla. Contro squadre in difficoltà il Benevento presta il fianco anziché intimorire. Ha paura anziché impaurire. Difficile andare oltre il pareggio con un atteggiamento così remissivo, quando agli avversari vengono spalancate letteralmente le porte della propria area di rigore. E con i pareggi, è bene sottolinearlo, la salvezza non arriverà.

A questo va ad aggiungersi la condizione precaria di tanti calciatori che con una seria concorrenza in questo momento si accomoderebbero in panchina. Il centrocampo schierato contro i toscani non ha retto l’urto del talento debordante di Ribery, a cui sono state concesse praterie per vie centrali. Il francese, deludente fino a ieri, ha avuto modo di accendersi una volta sì e l’altra pure, concedendosi anche il lusso di arrabbiarsi per il cambio a cinque minuti dalla fine, tanto era felice di inventare calcio sulla trequarti avversaria, possibilità mai avuta quest’anno prima del festival del Vigorito. 

Lui sì, come Vlahovic, uomo giusto al posto giusto, al contrario dei tanti giallorossi schierati fuori ruolo. Se a La Spezia Inzaghi aveva deciso di fare di necessità virtù adattando il modulo agli uomini a disposizione, ieri ha realizzato il contrario cadendo nell’errore più grave. Detto che Schiattarella non ha attualmente la gamba per dare una mano in fase di interdizione come a dicembre, schierarlo insieme a Viola si è rivelato un disastro alimentato dal contagioso nervosismo del partenopeo, ai limiti dell’irritazione. Per non parlare di Ionita, costretto (e non è la prima volta) a giostrare sulla trequarti senza avere né il passo né i tempi della rifinitura. Il gol non deve illudere: per l’ex Cagliari, definito in una recente conferenza “parte di un tridente”, l’area di rigore avversaria è un autentico miraggio.

E a proposito di punte e di fase offensiva, impossibile trascurare l’ingresso di Lapadula, innesto evanescente e fuori dal gioco. E’ parso che la squadra non sapesse come servirlo, cosa tra l’altro avvenuta anche con Gaich, a cui mancano tuttavia un gol e un rigore, entrambi per ‘colpa’ sua. Il ragazzo si farà perché ha le spalle larghe e delle movenze che non lasciano dubbi, ma affidare alla sua esplosione la salvezza di questa squadra avrebbe dell’inverosimile.

Recuperare pedine, rimettere tutti in carreggiata e chiarire la condizione di un giocatore come Caldirola, sul quale pende inevitabilmente un grande punto interrogativo (può giocare o non è in condizione?). Il compito di Inzaghi ora si complica tremendamente e il ritiro alla vigilia di una gara proibitiva come quella in casa della Juventus è un messaggio deciso lanciato dal club: ritrovarsi al più presto per non sprofondare. La salvezza, nel caso del Benevento, può essere raggiunta solo attraverso la compattezza, non con situazioni episodiche. Lo dicono il valore delle avversarie – che a differenza dei giallorossi hanno in organico più di un giocatore in grado di tirare fuori il ‘gol della domenica’ – e l’anatomia dei successi portati a casa fino a quel 6 gennaio. Il ‘giorno della Strega’, lo definimmo. Oggi suona come una maledizione. 

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