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Benevento – Dal prato del Vigorito a quello di Wimbledon in dieci secondi. Lo scambio che ha animato il finale di Benevento-Sassuolo è l’estratto di un acceso duello tennistico. Da una parte Glik, dall’altra Consigli. Dritto e rovescio all’ultimo sangue, con tanto di ‘ooooh’ ad accompagnare i mirabolanti colpi di ciascuno. Un tie break, volendo proseguire sul binario, proprio perché senza domani. Colpo di testa, risposta. Deviazione spiazzante, ancora risposta. Poi le braccia al cielo del numero uno, per nulla nuovo a questo tipo di epiloghi. “La più difficile è stata quella sulla deviazione finale”, ha detto a fine gara. Una deviazione in cui Glik si è prodotto per inerzia, praticamente senza cognizione, quando stava ancora imprecando per la ghiotta occasione fallita nove secondi prima. 

Una manciata di secondi sono niente paragonati a uno spazio di novantacinque minuti, eppure possono valere il piatto. I funamboli del Sassuolo fino a quel momento avevano trovato la strada spianata, avviando scorribande in lungo e in largo, passando in vantaggio a fine primo tempo e creando i presupposti più volte per allungare nella ripresa. L’unica colpa degli uomini di De Zerbi è stata quella di non chiuderla prima, perché avrebbero potuto farlo in qualsiasi momento. Ed è qui che si fa strada il rimpianto già provato all’andata  – ma con una prestazione di tutt’altro tenore -, perché se l’avversario non la chiude ogni pallone dell’Ave Maria si fa letale nel finale di partita, una zona franca in cui tutto è possibile e tutto è concesso. E lo ammettiamo: partire da lì, da quei dieci secondi, rende particolarmente comoda l’analisi ma non è di certo la strada giusta da seguire. 

Quella strada va imboccata dall’inizio, al bivio delle scelte di formazione e dell’ormai solito attendismo che il Benevento non ha tardato a mostrare anche stavolta. Con otto punti di vantaggio sulla terzultima che aveva già giocato e una partita da affrontare contro una squadra che non lotta per un obiettivo concreto, era legittimo aspettarsi un’aggressività diversa. Non servono i numeri del match a riassumerla, ma scrutandoli si trovano conferme importanti: la Strega ha tenuto la palla tra i piedi meno di venti minuti in tutta la partita, circa tredici dei quali nella propria metà campo. La comprensibile volontà di speculare sull’offensiva avversaria si è scontrata con l’isolamento degli attaccanti, costretti una volta sì e l’altra pure a battere in ritirata dopo aver affannosamente conquistato metri per mancanza di sostegno. Il catenaccio – patrimonio italico ineluttabile – è tale se ha il fine di beffare l’avversario, non se stessi. In quel caso è autolesionismo.

E di autolesionismo viene da pensare leggendo il dato del quarto d’ora finale del primo tempo – culminato con il gol decisivo – in cui il Benevento ha tenuto il possesso per la miseria di un minuto e quarantatré secondi. Il giocattolo è stato completamente ceduto agli uomini di De Zerbi, che palleggiando meravigliosamente non hanno potuto fare altro che ringraziare cedendolo al loro miglior giocoliere. Eccesso di Boga, verrebbe da dire, ma è una freddura che oggi fa ben poco sorridere da queste parti.

Nello stilare le pagelle abbiamo scelto volutamente di dare una pacca sulla spalla ideale ai poveri attaccanti, in particolar modo a Gaich e Lapadula, passando per Sau. La immaginiamo come una battuta di pesca, la loro partita. Minuti e minuti ad attendere che un pesce di dimensioni degne abbocchi distrattamente al loro amo. E non è detto che in quelle zone ne passi necessariamente qualcuno, se alle loro spalle non viene generata una certa corrente. Si obietterà che è spesso il caso a determinare gli eventi, ma affidare la salvezza al caso è tanto rischioso. In tutte le cose della vita, figuriamoci se il calcio può mai fare eccezione. 

Foto: Us Sassuolo