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Nel 1987, una mattina, Ettore Scola si svegliò trovando la casa a soqquadro. Nella notte – senza che nessuno della sua famiglia se ne fosse accorto – erano entrati i ladri ed avevano rubato i sette David di Donatello che il noto regista al tempo si era aggiudicato per i suoi film.

È uno degli gli aneddoti più curiosi del libro ‘Chiamiamo il babbo’, scritto a quattro mani dalle figlie del noto regista, anzi “a due voci”, come ha precisato Silvia, “perché abbiamo scritto insieme solo il primo capitolo, gli altri invece, considerato il poco tempo a disposizione per la pubblicazione, li abbiamo scritti singolarmente e nel libro si alternano”.

Figlio di un medico condotto e di una casalinga napoletana, una breve parentesi dell’infanzia di Ettore Scola tocca anche Benevento, quando da Trevico si spostò in città con la sua famiglia – tra il 1935 e il 1936 – per il trasferimento del padre, prima di stabilirsi a Roma. 

Paola e Silvia attraverso un racconto intimo finora rimasto inedito parlano della storia della loro famiglia, inserendo aneddoti e dettagli che restituiscono al lettore, in modo attento e preciso, la figura del Maestro. Lo scritto è stato presentato stamane presso l’Aula Magna dell’Istituto ‘Rampone’ di Benevento alla presenza di Silvia Scola che ha parlato agli studenti di suo padre Ettore come di un “uomo che al di là della professione, leggeva sempre la realtà attraverso uno sguardo ironico… ed era così anche nel privato. A volte le sue parole mortificavano di più rispetto ad una eventuale punizione”.

“Abbiamo sempre avuto un forte legame. Né io né mia sorella abbiamo vissuto con disagio il rapporto con lui, quando ci proponeva di lavorare insieme c’era sempre un ottimo dialogo, confidenziale e ironico. Però era preciso, stacanovista, pignolo e imponeva lo stesso a noi: è stata una disciplina ferrea, ma allo stesso tempo una vera e propria palestra di vita, che ci ha insegnato ad accettare e a comprendere il punto di vista altrui, ad aprire la mente”. 

Silvia Scola ha poi sottolineato l’importanza del confronto durante la scrittura di una sceneggiatura: “Papà mi faceva leggere le sue sceneggiature già quando avevo 7 anni, questo perché gli interessava il parere di tutti. Nel cinema vi è infatti la necessità di considerare più punti di vista di una stessa vicenda”. 

La scrittura è alla base di ogni audiovisivo, il cinema in particolare è innanzitutto narrazione, ma “una cosa che riscontro oggi nel nuovo cinema è proprio la poca attenzione nel momento creativo della scrittura” ha precisato.

Ettore Scola, un nome che non ha certo bisogno di presentazioni, regista di ‘C’eravamo tanto amati’, ‘La terrazza’, ‘Una giornata particolare’, ha fatto la storia del grande schermo attraverso capolavori e pagine da lui scritte più di un decennio fa ma ancora attuali: “Una cosa che ripeteva sempre era che al di là del valore cinematografico di un’opera, se un film resta attuale non è merito di chi lo ha realizzato ma è demerito della società che non ha risolto problemi e situazioni riscontrate già in passato. Come in ‘Una giornata particolare’ ad esempio, oggi cambiano gli elementi ma le situazioni restano quelle. Per mio padre l’attenzione agli ultimi era primaria, ci teneva ad illuminare zone d’ombra più sconosciute”.

Una esigenza che nasceva già durante la scrittura: “Papà usava il cinema per raccontare la sua epoca ma soprattutto la natura dell’uomo. Era un osservatore, critico ma sempre molto innamorato delle persone. Credeva nell’uomo, nelle sue risorse. E ciò faceva sì che tutti i suoi film avessero più piani di lettura”.