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di Nunzia Campanelli

“Albe e notti qui variano per pochi segni”. E’ l’incipit di una struggente poesia di Eugenio Montale, Il sogno del prigioniero, una riflessione spietata e lucida sulla drammatica condizione dell’uomo privato della libertà. Parole che risuonano spesso nella mia mente in questi giorni di ritiro forzato, in cui la limitazione delle più elementari libertà e la sospensione temporanea dei diritti sono rese necessarie dall’emergenza in atto. E’ facile, in questa situazione che obbliga alla chiusura e all’isolamento, come in una prigionia (anche se in casa propria), ritrovarsi a provare sentimenti negativi: senso di frustrazione, impotenza, precarietà, estraneità, vulnerabilità, alienazione, annichilimento. Ma a prevalere in questa avviluppata rete emotiva è il senso angoscioso di una mancanza: l’impossibilità dei rapporti sociali, se non quelli “da remoto”, filtrati da un anonimo schermo. Tristi surrogati di plastica dei contatti diretti con le persone in carne e ossa.

Tuttavia si può uscire dalla prigionia, pur costretti a rimanere dentro casa, e trovare strategie compensatorie pacificanti. Un’alternativa alla realtà soffocante può essere il sogno, con cui non dobbiamo intendere la pura evasione o l’ottusa negazione di una condizione difficile da accettare, ma la costruzione di una realtà altra, attraverso la trasfigurazione dei dati reali. E a rendere possibile la sublimazione della realtà interviene la poesia. Poesia che, grazie alla parola – le parole sono condizione per poter pensare, sosteneva Heidegger – e al suo potere di inverare pensieri, idee, crea la realtà, quella che si desidera, quella che può risarcire e consentire, quando il momento è negativo, di trovare un varco liberatorio. E’ così che il prigioniero di Montale – in cui il poeta stesso si identifica, non in quanto vittima di una prigionia fisica, ma per la condizione di estraneità dell’intellettuale al mondo – resiste alla severa reclusione, privato della libertà, ma non della capacità di sognare e di sperare. “Il sogno del prigioniero” acquista, nell’emergenza di questo periodo in cui siamo tutti reclusi, un significato particolare. Certo, le situazioni sono diverse: da una parte, c’è l’odierno isolamento forzato, cui siamo costretti dalla pandemia, dall’altra, la reclusione di un prigioniero politico, con allusione alle vittime dei totalitarismi novecenteschi, sia i gulag sovietici che i lager nazisti.  Ma questa differenza è ininfluente: la condizione di prigionia è metafora esistenziale e prescinde dall’hic et nunc. Del resto lo stesso autore invita ad estendere l’ordine dei riferimenti del testo, dal livello storico a quello allegorico, e a scorgere nel perseguitato politico l’emblema della condizione dell’uomo e di un destino eterno e universale. Come, infatti, chiarisce Montale, il motivo profondo da cui nasce la sua poesia è «la condizione umana in sé considerata»; le variabili esterne – il fascismo, la guerra – vi hanno certamente influito, ma il senso di lacerazione, di isolamento, di estraneità al mondo erano precedenti e le ragioni di infelicità «andavano molto al di là e al di fuori di questi fenomeni». La poesia guarda sì al suo tempo, ma senza dimenticare quei valori che oltrepassano il tempo stesso, ed è ispirata da un disagio esistenziale che precede il disagio storico. Il poeta è vittima di una condizione di “disarmonia” con la realtà, che genera in lui frustrazione, impotenza; dall’impossibilità di una piena realizzazione vitale, nasce la poesia-sogno, come risarcimento di uno scacco esistenziale. Il sogno del prigioniero coincide, dunque, con l’attività poetica: esso consiste nell’immaginare di essere altrove piuttosto che in cella, sublimando i dati reali con abbellimenti illusori.

Dunque, nella drammatica vicenda del prigioniero, considerata la polisemia dell’arte poetica e dell’arte in generale, ognuno potrà scorgere analogie con la propria esperienza,  nei più disparati momenti della vita. Per me, lo ripeto, i versi di questa poesia, nella delicata e particolare situazione che stiamo vivendo, sono illuminanti: parlano al cuore e alla mente. Ecco il testo:

Albe e notti qui variano per pochi segni.

Il zigzag degli storni sui battifredi
nei giorni di battaglia, mie sole ali,
un filo d’aria polare,
l’occhio del capoguardia dallo spioncino,
crac di noci schiacciate, un oleoso
sfrigolìo dalle cave, girarrosti
veri o supposti – ma la paglia è oro,
la lanterna vinosa è focolare
se dormendo mi credo ai tuoi piedi.

La purga dura da sempre, senza un perché.
Dicono che chi abiura e sottoscrive
                                       può salvarsi da questo sterminio d’oche;                                 che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d’altri, afferra il mestolo
anzi che terminare nel pâté
destinato agl’Iddii pestilenziali.

Tardo di mente, piagato
dal pungente giaciglio mi sono fuso
col volo della tarma che la mia suola
sfarina sull’impiantito,
coi kimoni cangianti delle luci
sciorinate all’aurora dai torrioni,
ho annusato nel vento il bruciaticcio
dei buccellati dai forni,
                                            mi son guardato attorno, ho suscitato                             iridi su orizzonti di ragnateli
e petali sui tralicci delle inferriate,
mi sono alzato, sono ricaduto
nel fondo dove il secolo è il minuto –

e i colpi si ripetono ed i passi,
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L’attesa è lunga,
il mio sogno di te non è finito.

Il prigioniero dalla propria cella può percepire pochi segni provenienti dall’esterno, orribili presagi di tortura e di morte, espressi dal poeta con una serie di potenti correlativi – oggettivi: il volo irregolare degli uccelli intorno alle torri di guardia nei giorni di battaglia, evocativo degli aerei da combattimento e delle loro evoluzioni, un soffio di aria gelida, l’occhio del capoguardia dallo spioncino, immagine persecutoria. E ancora: un rumore di noci schiacciate, probabile allusione agli stridori e ai lamenti prodotti dagli strumenti di tortura, uno sfrigolio simile a quello dell’olio che frigge, proveniente dai forni, e girarrosti veri o presunti, con riferimento alle torture, ai forni crematori e al bruciarsi dei corpi. Sulla stessa linea si collocano le metafore gastronomiche dello sterminio d’oche e del patè (una densa crema preparata con il fegato d’oca), con cui si allude al massacro di innocenti inermi, “cucinati” ed eliminati per consentire il trionfo del potere feroce di “Iddii pestilenziali”, capaci, come la peste, di causare la morte di milioni di uomini. Immagini raccapriccianti di un luogo di fuoco e di tormenti, simile ad una macabra cucina infernale: forte è l’eco di Dante che descrive i dannati nel cerchio di Malebolge, messi a lessare dentro la pece bollente. A prolungare sinistramente la metafora gastronomica è un’altra immagine icastica, quella del mestolo impugnato (gli strumenti di tortura); con essa si accenna alla delazione di coloro che, pur di salvarsi e sfuggire alla tortura e alla morte, aderiscono vigliaccamente alla causa degli oppressori carnefici. Il registro grottesco, mediante il quale la materia tragica viene straniata e presentata al lettore con termini bassi e quotidiani, sortisce effetti di straordinaria potenza: l’orrore per le aberrazioni della storia risalta più che mai, così come il disincanto del poeta. Il suo atteggiamento riflette la consapevolezza di vivere in tempi in cui la sofferenza e la morte non provocano più disperazione; il tragico ormai non è avvertito come tale, mentre dilagano insensibilità, indifferenza, cinismo. Eppure, nella fredda solitudine della sua cella, il prigioniero, attraverso l’attribuzione consolatoria di significati positivi al mondo circostante, concepisce un sogno di libertà: immaginando di essere accanto alla donna amata, la paglia su cui è disteso diventa un giaciglio d’oro e la luce rossastra della lampada si muta nel focolare domestico. Oppresso e stordito dallo stato di abbrutimento in cui vive, ferito dal pagliericcio pungente, egli coglie con la fantasia i segni rincuoranti di una possibile fuga e vi si identifica: il volo della tarma nella prigione, i fasci di luce iridescente che all’alba si diffondono intorno alle torri di guardia, l’odore di bruciato nel vento, proveniente dai forni, gli arcobaleni in luogo delle ragnatele, vividi fiori sulle sbarre delle inferriate. Immagini effimere, perché la tarma viene calpestata dalla sua stessa scarpa, i colori dell’aurora, somiglianti a variopinti kimoni, proiettati sul muro della cella svaniscono con l’avanzare del giorno, l’odore di bruciato non è quello delle ciambelle per i soldati, ma quello dei corpi dei prigionieri cremati, gli arcobaleni e i petali di fiori sono allucinate proiezioni fantastiche. Negli ultimi versi l’alzarsi e il ricadere del recluso rappresentano metaforicamente l’alternarsi di illusione e delusione, di momenti di caduta e momenti di ripresa, all’interno di una dimensione acronica, e di una costante condizione di immobilità, di buio. Il rumore di colpi (le torture inflitte ai prigionieri) e passi (delle guardie) riporta il prigioniero al drammatico dubbio, espresso nei consueti termini gastronomici: quale sarà la posizione che egli assumerà rispetto alla strage, al “festino” degli dei malvagi, quella del farcitore (persecutore) o del farcito (perseguitato)? Saprà resistere alla tentazione del tradimento e dell’abiura o cederà alla viltà? Il dilemma, riferito all’esistenza, attanaglia anche il poeta: riuscirà a rimanere fedele ai suoi valori? Il dubbio non è sciolto, la conclusione resta aperta, problematica, provvisoria: l’attesa è lunga, ma il desiderio della donna amata non si è ancora spento e la speranza di un residuo barlume di senso della vita è inesauribile. Il finale, dunque, ribadisce la fedeltà dell’uomo-prigioniero al proprio sogno e alla propria donna. Il sogno è la poesia, capace di offrire un’alternativa al disagio esistenziale; la donna, creatura salvifica, messaggera di una realtà soprannaturale, superstite emblema del “valore”, è incarnazione della speranza di una via d’uscita. Di fatto l’attesa della donna e il sogno poetico s’identificano: la visione femminile rasserenatrice nel buio della cella schiude uno spiraglio di salvezza, rendendo possibile l’illusione che tiene in vita il prigioniero.

Di qui un messaggio di grande forza persuasiva: dal regno della morte può nascere la vita, dall’impotenza può prendere le mosse il sogno, dalla poesia può venire il riscatto.

Ecco il senso che la letteratura può dare alla vita, positivo o negativo, consolante o inquietante che sia. Ce lo ricorda Italo Svevo nelle Confessioni del vegliardo: l’esistenza “letteraturizzata”, filtrata cioè attraverso la letteratura, acquista significato. Consegnato alla poesia e da questa raccontato, il sogno del prigioniero rivive in noi, accendendo la speranza in questo tempo buio. Perché nella vita narrata «Ognuno leggerà se stesso. E la propria vita risulterà più chiara o più oscura, ma si ripeterà, si correggerà, si cristallizzerà. Almeno non resterà quale è priva di rilievo, sepolta non appena nata…».