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Lavoratore deceduto per un mesotelioma pleurico, Atitech spa condannata ad un ulteriore indennizzo. Sono occorsi 18 anni, tanti ne sono trascorsi dalla morte di Aldo Converso, per definire la vicenda risarcitoria. L’ex dipendente dell’azienda di aerotrasporti spirò nel 2006, a 59 anni. A causarne il decesso, confermano le sentenze, un cancro ai polmoni da esposizione all’amianto. Converso – nato a Napoli e residente a Casalnuovo – fu assunto a 18 anni nello stabilimento Ati di Capodichino, trasformatosi nel 2004 in Atitech. Nel tempo ricoprì diverse mansioni, tra le quali assistente tecnico di bordo e magazziniere. In seguito si trovò esposto alle pericolose fibre di amianto presenti negli impianti. Il tutto, sottolinea l’Osservatorio nazionale amianto, “senza essere messo a conoscenza dei rischi”, e tra l’altro indossando “anche presidi antinfortunistici contenenti amianto (ad esempio i guanti)”. Nel 2005 andò in pensione, ma lo stesso anno arrivò la tremenda diagnosi: mesotelioma pleurico. La malattia, spesso causata dall’esposizione all’asbesto, lo condusse alla morte dopo un anno di sofferenze. Il lavoratore lasciò moglie e tre figli.

Il tribunale civile di Napoli, nel 2010, condannò l’azienda a risarcire la famiglia con 175.000 euro. In primo grado, il giudice del lavoro considerò provata l’esposizione del lavoratore ad amianto, nello svolgimento dell’attività lavorativa. Tuttavia esonerò l’Atitech dalla responsabilità civile per il danno biologico, cioè dalla lesione della integrità psicofisica: la ritenne interamente coperta dall’indennizzo dell’Inail. Una decisione ribadita dalla Corte d’appello, respingendo sia il ricorso dei familiari sia quello di Atitech. A cambiare le carte in tavola, però, è giunta la Cassazione. La Suprema Corte ha accolto la domanda avanzata dagli eredi, rinviando il giudizio alla Corte d’appello in diversa composizione. Nel processo bis di secondo grado, i giudici hanno riconosciuto l’esistenza di una parte di danno biologico, non coperta dalla assicurazione obbligatoria Inail. E hanno parzialmente censurato il primo verdetto d’appello.

Nei 359 giorni intercorsi tra diagnosi e decesso, secondo la sezione lavoro della Corte d’appello di Napoli (presidente Piero Francesco De Pietro) l’uomo “è stato perfettamente consapevole delle proprie condizioni fisiche”. Una coscienza comprensiva “dell’ineluttabile decorso della malattia con esiti prevedibilmente infausti”, nel giro di poco. Ossia, con quanto “ne consegue in termini di sofferenza oltre che fisica (determinata dalla patologia e dalle cure invasive) anche psicologica”. Da qui, i giudici hanno stabilito il pagamento di altri 53.311 euro, a titolo di risarcimento del danno biologico temporale e di danno morale terminale. Somma lievitata a quasi 90.000 euro con gli interessi, secondo la stima degli eredi. Resta un fondo d’amarezza. “18 anni di cause giudiziarie per risarcire i familiari sono veramente troppi” dichiara Ezio Bonanni, legale della famiglia e presidente Ona.